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Isabella Nazzarri

Isabella Nazzarri
Isabella Nazzarri

Case colorate e alberi fioriti. Non sembra neanche di essere a Milano, direbbero i più. In quella che fino a poco tempo fa era un luogo di culto di una comunità peruviana, ora c’è IN LABO, uno spazio invaso da sculture, gioielli e dipinti. Incontro qui Isabella Nazzarri (Livorno, 1987; vive a Milano) che è entusiasta del nuovo progetto condiviso con altre tre artiste e dell’idea di creare un laboratorio aperto, in cui ospitare artisti e tessere relazioni con l’estero. Nella sua porzione di studio si sommano tele di formati diversi e cumuli di carte. «Per me è un flusso continuo, i lavori sono collegati per serie. A un certo punto emerge un elemento leggermente diverso che determina la nascita di un nuovo ciclo». Alcune tele sono stese sul pavimento.

Lavori a terra?
«Spesso sì. Se devo usare colori molto liquidi lavorando a terra ho il pieno controllo della materia. Non ho una regola, dipende dal supporto e dalla tecnica che scelgo. In questo periodo sto utilizzando tele più sottili, perché trovo che siano più leggere».

Si avvicinano alla carta senza averne la fragilità.
«È tutto così leggero, fluido nei miei lavori. Uso pochissimo colore. A volte lo spazzolo, lo tolgo. Ho un pennello che mi ha regalato un mio amico cinese che sembra quasi una spazzola, con le setole molto morbide, con cui “pettino” la tela. Spesso cancello molti dei segni che faccio, mi piace che rimanga un alone, una sfumatura. Sono dell’idea che ogni traccia sulla tela debba essere mirata, soprattutto dove il colore si accende».

Sulla tua scrivania c’è un libro illustrato. È un erbario?
«È una fonte inesauribile, vi trovo un sacco di spunti. Parto da un’immagine, sempre la stessa, poi la guardo, faccio dei disegni. Il bozzetto e il lavoro finale non si assomigliano,  ci sono solo dei rimandi».

La fluidità del gesto fa credere, invece, che non vi sia uno studio preparatorio.
«Sperimento linguaggi diversi, non sono necessariamente disegni preparatori, non ho mai pensato, per esempio, di usare il proiettore o di ricalcare le forme al buio. Da questi lucidi, in cui usando punte diverse cambia non solo la linea ma anche l’effetto d’insieme, mi piacerebbe ricavare qualcos’altro, sovrapponendoli e costruendovi una sorta di lightbox».

L’acquerello rimane però la tecnica che prediligi. Si lega all’acqua, alla fluidità.
«È una costante del mio lavoro, un’esigenza anche quando utilizzo l’olio. Considero le carte in modo diverso dalle tele, come se si potessero ammonticchiare, tanto che sto pensando di esporre alcuni disegni come una risma. Ne ho anche una serie di piccole dimensioni, tipo cartolina. Sono più spontanei, immediati».

In alcune carte scegli di usare solo il bianco e nero?
«Ho lavorato tanto col bianco e nero, ma ultimamente sono troppo affascinata dal colore per rinunciarvi. In passato mi piaceva molto l’illustrazione, disegnavo figure molto minuziose e le carte risentivano di questa influenza, emergevano personaggi, erano inquietanti».

Non credo che, però, i colori pastello facciano perdere ai nuovi lavori questa caratteristica.
«È un flusso continuo di immagini, con rimandi a organismi vegetali, all’anatomia. Sono agglomerati di ricordi. Cerco di realizzare forme aniconiche, in cui domina l’idea di fluidità, di liquidità, con un rimando all’acqua.
In alcuni lavori meno recenti ci sono tracce di disegno, come se avessi bisogno di un appiglio, un punto di riferimento nel bianco da cui partire prima di iniziare ad affrontarlo».

Nelle tele diventa meno evidente il confine, non è chiaro se sia il bianco dello sfondo a prevalere e cancellare la figura che vi galleggia o viceversa. C’è una ricerca della stessa leggerezza?
«L’olio mi consente di attenuare l’effetto del colore, cosa che non posso fare con l’acquerello. Della tela amo la possibilità di intervenire con il bianco e di poter lavorare a strati, dilatando il tempo. E di ripensarci. A volte trovo tele di due anni fa, le riprendo e le continuo».

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