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Erri De Luca. Processo alle parole. Chi è il vero sabotatore?

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Lui dice che «questa incriminazione è come un premio letterario. Perché le mie parole sono state prese così sul serio che è come se avessero ricevuto un riconoscimento importante».

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Erano state queste, le sue parole: «La Tav va sabotata. Le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti».

E per quelle lo scrittore Erri De Luca è finito in tribunale per istigazione a delinquere, dopo la denuncia della Ltf, la società che sovrintende alla costruzione della linea Torino-Lione.

In questi giorni di sentenze, con 47 No Tav appena condannati a 157 anni di carcere, lui veste ancora il ruolo di imputato scomodo, «uno che scrive storie», come si definisce lui, che ha rifiutato il rito abbreviato perché se no sarebbe stato un processo a porte chiuse, mentre lui lo vuole il più aperto possibile, un dibattito sul treno ad alta velocità, sull’amianto, sulle montagne devastate, sui soldi inutili, sulla gente che lotta per difendere la loro terra:

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«Ne hanno parlato anche all’estero di questo processo, in Francia, in Gran Bretagna. Quest’aula è sotto osservazione». Dice che «è un’accusa priva di fondamento», che in Val di Susa stanno facendo «una grande protesta civile», che hanno ragione loro e che vinceranno, perché quel treno non si farà mai, perché non basteranno i soldi per bucare la montagna.

Poi aggiunge un’altra cosa, che se lo condanneranno lui non farà appello. Proprio come fece un altro scrittore, Giovanni Guareschi, 20 milioni di libri venduti nel mondo, che quando nel 1954 si beccò 12 mesi per diffamazione nei confronti di De Gasperi, disse che non avrebbe presentato ricorso perchè accettava «la condanna come un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente».

Era stato rinviato a giudizio per due presunte lettere del premier pubblicate sul suo giornale, Candido, in cui De Gasperi avrebbe chiesto agli americani di bombardare Trento. Si fece 409 giorni di carcere a San Francesco del Prato, Parma, perché a quei 12 mesi se ne sommarono altri 8 per vilipendio al Capo dello Stato, presi a un altro processo, 4 anni prima, e rimasti in naftalina per la condizionale, prima di uscire per buona condotta.

Guareschi si proclamò sempre innocente levando alte grida di scandalo per l’ingiustizia subita. Ma al di là della condanna, una perizia eseguita proprio l’anno scorso avrebbe dimostrato, abbastanza inequivocabilmente, che quelle lettere erano due autentici falsi.

Innocente o colpevole, però, c’entra fino a un certo punto, perché nel mondo moderno cresciuto sulle fondamenta dell’illuminismo, processare le parole di uno scrittore sembra appartenere al medioevo del diritto. E’ davvero così? E fino a dove può il pensiero di un intellettuale?

Nella categoria dei diavoli dello spirito, ci stanno tanti grandi scrittori, restando solo ai nostri confini e alla nostra Repubblica, a partire da Aldo Busi che alla fine del processo telefonò alla mamma e le disse: «Mi è andata male. Mi hanno assolto»; e con in testa Pier Paolo Pasolini, 24 volte finito sotto processo, una delle quali, nel 1970, per lo stesso reato di Erri De Luca, istigazione a delinquere, in seguito a un articolo scritto su un supplemento di Lotta Continua dedicato alle forze armate.

Pasolini diceva che «i diritti civili sono in sostanza quelli degli altri». Ma il vero problema è quello della parola, che non è sempre uguale, anche a secondo di chi la dice.

Per la Procura «De Luca è un personaggio noto e capace di influenzare altre persone» e proprio con le sue parole avrebbe creato dei danni ai cantieri della Tav e alla società che gestisce i lavori, perché avrebbe esortato la gente «a compiere atti illeciti contro le strutture dell’alta velocità».

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Lo scrittore, invece, sostiene che quella parola può voler dire tante cose diverse: «conosco bene il significato della parola sabotaggio. L’ho praticato qui a Torino, negli Anni 80, per 37 giorni e 37 notti, alla Fiat Mirafiori, dove con gli operai abbiamo bloccato la produzione.

Il vero sabotatore è nobile, ha un signficato molto più ampio dello scassamento di qualcosa. E’ una parola che ha usato Gandhi, per capirci, e pure Mandela. Anche un ostruzionismo parlamentare è un sabotaggio rispetto a un disegno di legge. Ma quello che riconoscono a me non lo riconoscono a Bossi e Berlusconi».

Gasparri sui suoi tweet ha detto cose terribili, contro tutto e contro tutti. Eppure non ha un processo. Dove si ferma la giustizia? E sono le parole che processiamo o le persone?

Detto che a noi quella frase sembra inutilmente provocatoria e per questo stupida, Erri De Luca non è solo uno scrittore, ma anche uno che andava e veniva dalla Bosnia, subito dopo la guerra, guidando camion pieni di viveri nei convogli di solidarietà, uno che lo trovavi sotto le bombe di Belgrado o fra i disperati e gli annegati di Lampedusa, una persona che si è messa sempre in gioco, anche con il suo spirito ribelle.

Lo confessa lui stesso, in fondo: «Sono scappato di casa a 18 anni, da Napoli a Roma, un letto in una casa immobiliata in via Palestro. Sono del 1950 e sono molto legato alla mia generazione, una generazione importante, che voleva cambiare il mondo e l’ha solo migliorato».

La sua, dice, è stata una generazione rivoluzionaria, senza rivoluzione. E’ stato muratore, operaio, camionista e autista nella Belgrado bombardata, ha pubblicato più di 60 libri e il primo l’ha scritto a sei anni ed era la storia di un pesce che si ribellava alla favole di Esopo. Guarda caso.

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Era uno che pensava da ribelle sin da piccolo. E’ stato responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua romano, ha lavorato in Africa, dove s’è ammalato di ameba e malaria, fa alpinismo, non ha mai portato la cravatta tranne una volta a Cannes, e vive a Bracciano, provando la felicità ogni tanto, come dice lui, «per due o tre secondi al giorno».

Ecco, questo è Erri De Luca, il sabotatore.

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