A esser sinceri, non ho mai capito bene l’utilità della macchina che guida da sola. Sarà contenta l’Amedea Cantore, una che conoscevo ai tempi dell’università quando eravamo tutti più giovani e carini, che mette sempre la prima, al massimo la seconda, anche se sta viaggiando in autostrada.
Ma se io che invece sono uno di quei disgraziati che ti si attacca a due centimetri dal posteriore prima di rombarti a zigzag come un deficiente, devo andare a Bologna, che senso ha far partire la macchina e restare a casa? Mi hanno spiegato che ovviamente ci salgo pure io: schiaccio un tasto e poi faccio quello che voglio, dormo o leggo.
Ma non c’è già il treno? Si sta molto più comodi e ti servono pure il caffé. Niente da fare: questo è il futuro e ormai ci siamo. Il Tom tom e non so quale altro arnese hanno già informato tutti che nel 2020 in Germania viaggeranno le auto che guidano da sole e che la cosa più importante da fare adesso è rivoluzionare completamente la segnaletica sulle strade per permettergli di dialogare senza interruzione con queste driverless car, attraverso un servizio speciale di sensori e telecamere. Che posto strano sarà il futuro. Un luogo senza tempo in cui sembra esserci solo qualcuno di troppo: l’uomo.
Ci saranno di sicuro dei cellulari che fanno tutto loro e dei robot che lavorano meglio di noi. Poi però succederà che una semplice Google car priva di conducente s’imbatterà nel più bizzarro degli incubi per la sicurezza, come hanno già raccontato Matt Richtel e Conor Dougherty sul New York Times: l’essere umano.
Google ha quasi indetto una conferenza stampa per denunciare lo strano fatto, che sembra complicare un po’ i loro meravigliosi progetti, cioé che nel mondo ci sono ancora miliardi di persone in carne e ossa che s’aggirano creando qualche casino. Ma non si riferiva all’Isis o alle guerre. Più specificatamente, gli autisti. E’ capitato un mese fa: la driverless car si è avvicinata alle strisce pedonali e si è comportata perfettamente, rallentando per far attraversare il pedone, come insegna il codice della strada, ma soprattutto il nobile animo metallico di questi robot della guida.
Il risultato non è stato all’altezza delle intenzioni: il pedone sta bene, e vi saluta tutti. La Google car no. L’ha presa in pieno la berlina che veniva dietro. Il tecnico, che era sopra alla macchina senza guida per il test, è finito pure all’ospedale. Niente di grave, per carità. Google rassicura tutti. Anzi, diciamo che se non ci fosse stato lui nell’auto, forse sarebbe andata meglio, perché anziché frenare di colpo, come consigliato dal tecnico, avrebbe rallentato dolcemente come un vero robot, evitando forse il tamponamento.
E’ evidente che l’eliminazione totale dell’essere umano dalle strade appartiene quantomeno a una seconda fase. Certo, prima o poi, bisognerà far qualcosa. Gli incidenti stradali in tutto il mondo sono più di un milione e 200mila ogni anno, e il 94 per cento negli Stati Uniti è dovuto all’errore dell’uomo, un dato che solo a prima vista può apparire strano, visto che – a pensarci bene – i gatti, i cani e neppure i leoni guidano delle macchine. I costruttori delle driverless car assicurano che questi numeri potrebbero essere ridotti drasticamente, quando non addirittura cancellati del tutto.
Queste auto sono dei veri e propri gioielli dotati di sensori progettati per rilevare oggetti fino a 2 campi di calcio in tutte le direzioni, più o meno 150 metri nelle varie latitudini. Possono avvertire la presenza non solo di altre macchine, e di pedoni e di ciclisti, ma anche di sacchetti svolazzanti della spesa, o di uccelli che volano basso e di cani che potrebbero avvicinarsi alla strada. Sono dei capolavori che possono reagire al minimo rumore, persino a un accenno di movimento.
Sì, il problema è poi sempre il fattore umano, come direbbero i marziani: queste macchine capiscono l’uomo, ma l’uomo fatica a comprenderle. Prendete quello che è successo ad Austin, Texas. Una ipertecnologica auto Google è andata in difficoltà per un ciclista. Il fatto è che la bicicletta era una fixed-gear, o bici a scatto fisso, senza meccanismo di ruota libera: per guidarla è necessario pedalare continuamente. All’incrocio è arrivata un secondo prima la Google car e s’è fermata disciplinatamente prima dello stop.
Quando è sopraggiunto il ciclista s’è messo in surplace aspettando che il semaforo diventasse verde. Ma questo esercizio implica dei piccoli movimenti che permettono di restare in equilibrio, un gioco di gambe e di braccia, senza andare avanti, sempre in piedi sui pedali. Questi minimi spostamenti sono bastati a mandare in crisi i sensori della macchina: avanzava e si fermava, e poi avanzava di nuovo e si bloccava un’altra volta, seguendo con precisione scientifica la danza del ciclista che interpretava come la volontà di partire, e trovandosi alla fine immobile proprio in mezzo all’incrocio.
I due tecnici che erano sopra ridevano a crepapelle: noi saremo anche indisciplinati, ma siamo più furbi. Il ciclista, invece, era quasi ammirato: «La cosa strana è che nonostante fosse un po’ un casino, mi sono sentito più sicuro ad avere a che fare con un’auto a guida automatica che con un essere umano al volante».
Ha tutte le sue ragioni, e anche un po’ della nostra comprensione. Se pensiamo alla follia di certi ingorghi e di certe corse pazze per seppellire degli ignari pedoni, come si fa a non dargli torto, a lui, e alle Google car in rampa di lancio.
Il problema, che non è solo filosofico, però sta nella dittatura delle tecnologia, nelle sue rigide regole, così algide e disumane, in questo mondo strano che sarà il nostro futuro, di sicuro meno violento, ma anche meno romantico, come impone la legge dei robot. E non so davvero se sarebbe così meglio. Quasi quasi a me lasciatemi al quadrivio. Scendo la fermata prima.