“Dipingo un po’ per cercare di sorridere, un po’ per distrarre il mio prossimo che, in fondo, senza sapere perché, sento di amare”
Gianfilippo Usellini
Museo del Novecento. Tra i cupi ambienti del Sironi e le desolanti nature morte del Morandi, si percepisce il suono di una voce. Anzi, più d’una, un coro di voci. Un’armonia che pare in contrasto con il suo tempo, con il suo mondo. Il tempo delle stragi, dei genocidi, delle guerre in cui si avverte solamente dolore e si odono grida di disperazione. Lui, Gianfilippo Usellini (1903-1971), ha cercato di sorridere, ma senza voltare lo sguardo altrove; ben consapevole dei problemi della sua epoca, ma mai arreso di fronte ad essi.
“L’arte vuole sempre irrealtà visibili”
Jorge Luis Borges
Così diceva in un’intervista del 1962: “Alcuni dicono che io sono un surrealista, uno cioè che si affida a soggetti strani per sorprendere il prossimo o per rappresentare tipi di incubo; no, io credo di essere semmai un metafisico. Ma le definizioni non mi piacciono”.
E così nel celebre Coro a tre voci, l’opera esposta nel museo milanese, emerge chiaramente l’immagine di un artista che si concepiva come pictor philosophus: sullo sfondo un’architettura simile a quelle del Brunelleschi che sembra fondersi magicamente con la perfezione del canto del coro in primo piano. Un mistico legame con l’architettura che l’Usellini ha riconosciuto proprio sin da bambino, trascorrendo buona parte della sua vita in una villa edificata da un allievo del Vanvitelli nel 1783 ad Arona. Un’armonia metafisica, appunto, dove l’oltre non coincide con il nulla, bensì con la bellezza, con la bontà, con la verità così come vissuta e percepita dall’innocenza di un bambino.
Ed è così che tutto ciò diventa elemento centrale della sua poetica: poter tornare bambino per ricostruire la realtà con il pennello. Innocente sì, ma tutt’altro che superficiale. “Vi assicuro che questo mondo è pieno di diavoli”: avverte come vicina la possibilità che la bocca venga chiusa e il pensiero venga spento.
La sua ricerca è un limpido esempio di coraggio e severità nei confronti delle esperienze totalitarie, ne ha denunciati i tentativi di repressione nei confronti della criticità e della creatività delle singole persone. Da cantore della bellezza a tubero, così si è tentato di ridurre l’uomo.
“La mia pittura vuole rappresentare il bene e il male,… la loro perpetua lotta, il loro continuo intrecciarsi e giocare sulla bilancia della vita. Si tratta di un problema che mi ossessiona fin dagli anni dell’infanzia e dal quale non uscirò fuori che con la morte… Io voglio che chi guarda un mio quadro ne abbia anzitutto un sollievo,… l’arte deve rallegrare la gente, non immusonirla”.
Dal dolore di morti incomprensibili ed innocenti, un dolore indelebile, a un dolore trasformato: la realtà come eterna guerra di contrari, a cui tuttavia viene offerta la speranza di una magia che effettivamente la prenda per mano e la conduca, finalmente gioiosa, a sorridere.
“Mi sono accorto che per me dipingere è come sognare in pieno giorno”
Gianfilippo Usellini