Come è arrivato a definirsi “pirandellianamente pittore” Francesco Lauretta?
Rispondere a questa domanda, come altre, in questo momento della mia esistenza d’artista, è davvero complicato e difficile. Mi definii pirandellianamente pittore quando compresi che da quel momento davo inizio al programma e progetto come pittore. Fu come una specie di conversione. Compresi che potevo operare intorno al medium della pittura facendo un lavoro lungo, feroce, complesso, assai difficile da spiegare ma per me assolutamente necessario per condurmi avanti, buttarmi o gettarmi avanti responsabilmente nel tempo perché avevo intuito che oggi – che è già ieri – il pittore è fondamentalmente qualcos’altro.
Ad ogni modo fu come scoprire la prima carta, inattuale. Era il 2003 e nella galleria di Carbone.to – unico a comprendere questo corso – esposi Via degli astronauti, una mostra con 10 tele e 10 video siciliani, vera e propria mia operetta morale e mi riferivo a Pirandello perché mi interessava il suo rapporto con la propria terra avvenuta dopo l’esperienza di Bonn come necessità di lavoro vivo senza nostalgia o malinconia tipico mood in altri autori mossi nel mondo per poi ritornare ai luoghi natii. Devi mettere che io ho lasciato la Sicilia per fare l’artista, non avrei potuto fare altrimenti, a 19 anni e mai avrei immaginato che potesse poi tornarmi utile come risorsa di lavoro per la sua ricchezza e particolarità. Diciamo che quella fu la mise en scène della mia prima fase di lavoro intorno alla pittura. Naturalmente fu l’occasione per riprendermi i miei spazi, riflettere sulle cose locali, relazionarmi con un territorio come mai avevo fatto anche perché fino a quel momento la mia riflessione cadeva totalmente dentro la lingua dell’arte e la sua destinazione. Cominciai ad investire, ed irradiare il mio progetto a piene mani sul territorio, il Sud, come per esempio Franco Arminio ha fatto e continua a fare come paesologo, ma anche altri, come De Seta e Ghirri prima, Zanzotto e Celati e perché no, anche Angela Bubba in questi tempi. Dico anche che alcuni anni fa, cinque almeno, mi sono definito come Ingegnere del medium della pittura. Naturalmente queste sono tutte definizioni supplementari.
Che ruolo ha avuto per te all’inizio della tua carriera l’incontro con l’artista James Lee Byars?
30 anni fa, che dire? Grazie all’incontro con James Lee Byars cominciai a studiare filosofia. Mi avvicinai a Levinàs, di conseguenza a Derridà che in qualche modo cominciarono a tornire e confondere le mie idee intorno all’arte, ma non solo. C’è da dire che lo stesso James all’epoca era poco compreso nel nostro paese. Pensa che quando approdai nella città sabauda dove un anno prima Lee Byars aveva esposto con una sontuosa personale a Rivoli, dal titolo Good Luck, uno dei critici e storici di punta della città, molto influente sui magazine che contavano di quel tempo, attaccò violentemente quella mostra in una città dove l’Arte povera, che non ha mai smesso di provare la sovranità politica e di potere, molti artisti e naturalmente genti di quella risma sistematicamente ignoravano o ripudiavano qualcosa che era contrario o differente alle loro convinzioni dell’arte, che già sentivo e intuivo terminali.. In breve eri dentro o non eri. 30 anni fa debordava il Post moderno, nell’Accademia di belle arti di Venezia eravamo insaccati di riflessioni complesse e tensioni tra i vari pensieri e se all’inizio credevo che tutto questo era una follia poi ho dovuto strusciarmi con questi avventi fin quasi l’altro ieri. 30 anni fa in un paese come il nostro era impossibile pensare, per esempio, alla pittura che si fa adesso, allo svolazzo di possibilità che oggi viviamo. A Torino era possibile esporre cose che a Milano non andavano bene. James era altrove, era avanti, e quest’anno è stato celebrato con mostre di rara bellezza. Ricordo quella nella sua galleria storica di Michael Werner, e quella al MOMA PS1. Nella postura di James avevo intuito che si muoveva con sembianze che procedevano a passo lungo, in breve s’era gettato in un tempo altro e prossimo al nostro. La tesi la intitolai semplicemente con le iniziali del suo nome rigorosamente con due punti di domanda stampati in oro su copertina di velluto bianco: J.L.B. ??. Ricordo una passeggiata. Eravamo prossimi alla stazione Santa Lucia di Venezia quando disse: Guarda Francesco, due torri dorate!. Guardai e osservai. James, sono bellissime!, contemplai. Ecco lui mi ha insegnato questo stare al mondo, a comprendere l’invisibile e l’inesistenza come postura esistenziale che poi lentamente ho tradotto nella mia opera soprattutto negli ultimi anni.
La tua pittura conserva una profonda storicità di luoghi, cultura, usanze e tradizioni del sud ma a mio parere anche di tutto il nostro Paese. Una sorta di scrigno segreto in cui si conserva la storia più bella…
La mia pittura ha attraversato la storia del mio Sud. È come se avesse scandagliato alcuni motivi, tracimate visioni e racconti ma questo è stato solo un aspetto della mia pittura, importante certo ma non il solo. In verità ho cominciato a studiarla nella lontana estate del 1992. Nel 1996 esposi Reliquia a Torino, fu un tentativo unico di comprendere la pittura nella sua mortalità. Mostra disgraziata quella. Nel 1999 esposi la mia prima mostra di pittura come la si intende normalmente, nella sua gloria: Valori plastici. In tre stanze spiegavo la follia che mi aveva condotto responsabilmente ad un Esordio. Da quel momento cominciai a formare il percorso ludico. Per me la pittura era come un corpo morto che quotidianamente mettevo in piedi e che continuamente mi si accasciava per terra. Cercavo di capire come fosse possibile rianimare un corpo morto, se era possibile e per fare questo ho iniziato a comporre delle tele di fine, collassate di colore e nel modo più orribile per la pittura di quel tempo e cioè lavorando e cavalcando un altro cavallo morto quale quella della fotografia, la retorica dell’immagine felice del Sud. Tutto lo splendore coloristico e sofisticato di un’immagine congestionata dalla fotografia lo traducevo sulla tela con veri e propri inni di fine. Quei quadri si formavano lentamente e per alcuni anni hanno anche informato un corso visibile e spesso incomprensibile per chi si avvicinava alla mia opera. Erano quadri inevitabilmente respinti o amati. Con quei quadri visitavo l’orrore di molta pittura inutile che gli anni novanta ha prodotto, ma non solo quelli, la pittura popolare e priva di cavilli storici e urgenze, direi alla “Camilleri” e cioè risolta, spensieratamente vicina alla gente. In breve accasciatomi ad essa ho cominciato a comprendere che questo medium aveva bisogno di redenzione e per fare questo ho disciplinato la mia vita perché per una reinvenzione ci vuole pazienza, digressione, assorbimento e redenzione. Avevo come individuato due momenti e movimenti del pensiero dialettici: distruzione e ri-costruzione. Da qui cominciai a riflettermi come Ingegnere, ingegnere per ricreare. Ho contemplato la pittura nel suo processo di disintegrazione e consumazione riflettendone il suo carattere postumo, assorbendola con tutte le sue accrezioni – da qui tutto il momento che spiegavo prima -, le opere festose e in qualche modo aventi come oggetto il Sud. Questo l’iter: ri-costruzione, riproduzione, ricordo e redenzione. Come ingegnere giustapponevo elementi disparati, nonché disprezzati, di modo da generare una tensione elettrizzante, una illuminazione esplosiva di elementi nel presente:
-La vita postuma intesa come momento di disintegrazione
-Ingegneria intesa come momento di ricostruzione
-Costellazione intesa come modalità di attualizzazione e di rappresentazione.
Per una reinvenzione ci vuole, in breve: pazienza, digressione, assorbimento e redenzione.
Quale è il ruolo del tuo paese di origine nel tuo lavoro?
Ho scoperto il mio paese una notte del 2001 durante la proiezione di tutti i video documentari di Vittorio De Seta. Da un paio di anni avevo cominciato a dipingere e cercavo di costruire il mio requiem alla pittura che spiegavo in vere e proprie opere installative, così credevo insomma, i quadri esposti formavano gruppi, di due o tre a volte stanze intere, di riflessione con immagini collassate nel colore. Fu durante la visione di alcuni documentari che compresi che la mia terra, Ispica in modo particolare, poteva pormi al centro del mondo: lì c’era tutto. La città di Ispica sarebbe diventata laboratorio di ricerca, i suoi abitanti, la sua geografia e cultura, le sue mutazioni e mutilazioni avvenute negli anni. Da allora cominciai a rimuginare sulle possibilità e ricchezza che abbiamo noi qui, nei paesi, lo sguardo basso e speciale per la ricchezza umana e disumana assieme tanto che partii per l’isola, un mese immerso ad inseguire i territori di fine, finisterre, dove era stato De Seta. Ne uscii con materiali straordinari e fu all’epoca che cominciai ad arricchirmi di opere, di vite, suoni, umori indagando sugli aspetti più vari e ricchi che la mia terra offriva così generosamente.
Cominciai a dipingere per i contadini, i muratori, ad andare alle processioni, le feste, le sagre e tutto questo lavoro si gonfiava sapendo che altre figure operavano in questo modo, lo faceva Don De Lillo – pensa al suo L’uomo che cade – o Don Caballero in musica ecc.. Da quel momento ho colto l’intero organismo ispicese come giardino in movimento, alla Gilles per intenderci, e tutt’ora ne registro il suo ansimare, ogni volta che ho la possibilità di immergermi nel territorio registro tutti gli umori passati, presenti e futuri.
Cosa rappresenta e cosa deve rappresentare per te l’arte?
Non lo so. Io per esempio sono un disadattato e mai ho pensato di rappresentare alcunché se non forse questo disagio esistenziale. So però che l’arte mi ha fatto comprendere che davanti a me ogni cosa è immensa, la vita di ognuno è immensa. Quando parli con altri artisti o leggi le loro interviste senti e leggi il loro credo. Ognuno interpreta l’arte secondo la propria formazione, crede di avere delle risposte o dubbi o verità. C’è chi si occupa di politica chi d’altro. Io amo la poesia, per esempio, ma non sono un poeta. Amo follemente la musica in tutte le sue forme e mi piacerebbe comporre qualcosa di meraviglioso, ma cosa? Che tipo di musica? La mia discografia varia secondo l’umore e progetto così in un giorno è possibile che ascolti Mutant degli Arca e poi dopo Arvo Part, Gesualdo e i Sightings ecc. e forse mentre rispondo comprendo che il mio vivere abbraccia ogni cosa, il mio vivere stesso è intriso d’arte: sto pensando per esempio a JLB, lui viveva d’arte e rappresentava se stesso come opera d’arte visto che per sua natura si vestiva, viveva e si ubriacava ad arte?
Non so cosa rappresenta l’arte, non me lo chiedo più se l’arte è cambiata ed è rimasta sempre se stessa in 30 anni e passa.
A quale dei tuoi risultati artistici sei più grato?
Uno dei risultati a cui sono grato, ma davvero, è stato quando ho cacciato di casa una famiglia di galleristi. Da quel momento ho cominciato finalmente a mettere in opera tutto quanto è cresciuto negli anni, un progetto duro, solo, sognato, discusso coi fantasmi fino allo stremo, fin quasi a rendermi folle e che finalmente sono riuscito a spiegare con tre mostre per me importanti che altrimenti e forse mai sarei riuscito a svelare se abbracciato dai poco curiosi, i senza testa. Ma, come in tutte le cose, ci sono galleristi e galleristi, curatori e critici e storici in tutte le salse. Due galleristi che ho amato e mi amavano sono stati Christian Stein e Guido Carbone. Era un piacere stare con loro, ore e ore a parlare a condividere pensieri, progetti, amori. Questi rapporti si scoprono importanti perché, naturalmente, spiegano un lavoro, il suo corso ma altrettanto naturalmente i risultati si ottengono se si inseguono illuminazioni.
Tre aggettivi per descrivere il sistema dell’arte degli ultimi anni…
L’arte degli ultimi anni s’è fatta grande, viviamo un momento straordinario, splendido, ci sono sacche di riflessioni intriganti e gli artisti, quelli grandi, non hanno nulla da invidiare agli artisti della seconda metà del 1800. In breve, qualcuno ha detto, e io sono d’accordo, stiamo vivendo una condizione fertilissima che porterà a comprendere l’arte in un modo nuovo. Ci sono sacche di pensatori che lavorano su questa rivoluzione. Penso alla Scuola di Karlsruhe, ai narratori più audaci, a certi poeti che hanno aperto varchi, straordinarie brecce di possibilità.
Il sistema degli ultimi anni è stato ed è: prepotente, snob, idiota.
Progetti in fase di crescita?
Ho cominciato ad abitare spazi inesplorati. A perfect day è l’inizio, un progetto sulla libertà e l’invenzione. La pittura è fondazione e il suo mondo immenso.
BIOGRAFIA Francesco Lauretta
Dopo studi tecnici, si trasferisce a Venezia e frequenta l’Accademia di Belle Arti nell’aula di Emilio Vedova. Si diploma nel 1989 presentando la tesi su James Lee Byars, artista americano incontrato a Venezia, che influenzerà le prime opere esposte a Torino, dove si trasferirà nel 1991.
A Torino conosce gli artisti dell’arte povera e inizia a realizzare opere installative.
Comincia ad esporre opere bianche, sculture monumentali che rasentano il minimalismo, e olfattive. Utilizza petali di sapone che deposita su cassetti che destabilizzano elementi riconoscibili d’uso comune quali sofà, altari, porte, pareti, eccetera.
Espone anche lettere e progetti simili a grandi cartoline su pergamene trasparenti. Nel 1992 incomincia a riflettere sulle possibilità della pittura, intorno al suo medium, e realizza la prova di un primo quadro che definisce “fotocoppia”: la copia fedele di una fotocopia, realizzata con colori ad acqua in bianconero, che riproduce lo scolabottiglie di Marcel Duchamp.
Dopo una prima personale presso la galleria Noire, nel 1993 espone una mostra dal titolo Destinazioni in due spazi contemporaneamente: da Noire e nella galleria di Franca Recalcati. Ai mobili destrutturati e olfattivi – due enormi quadri sono esposti sospesi a parete per mezzo di un cassetto contenente i petali di 500 rose nere, che sporge da un taglio nel muro – aggiunge due fotocoppie. Differentemente dalla prima prova, queste sono dipinte su sottili cassetti di legno laccato. Sono le riproduzioni fedeli di due opere note, Il Cristo in scurto del Mantegna e La grande guerra di Magritte, eseguite copiando le fotocopie delle opere originali, mantenendone la stessa grandezza, con colori ad acqua, intervenendo solo come a correggere parti delle opere, ad esempio cancellando le stigmate del Cristo del Mantegna o dipingendo il volto coperto dalla mela dell’omino con bombetta di Magritte. Queste due opere, oggi cancellate (bastava un semplice colpo di spugna per cancellare la fatica di un lavoro pesante quale quello della copia minuziosa della fotocopia) diedero il via alla condizione di pittore che poi scoprì definitivamente nella prima personale di pittura vera e propria dal titolo Valori plastici presso la galleria di Guido Carbone, nel 1999. Nel frattempo aveva esposto nel 1996 da Care of (Milano) 10.000 soldatini gravidi, e aveva chiuso definitivamente il lavoro con le sculture ingombranti ed immacolate dei primi anni di ricerca con una mostra dal titolo Reliquia (Torino), consistente in 200 tavole dipinte, proiettate nello spazio, unte, bruciate, che formano altari tra sacro e profano.
Nel 2003, dopo un breve viaggio nella sua terra d’origine, si definisce pirandellianamente pittore, e da quel momento si approfondisce il tormentato rapporto con questo medium che lo conduce oggi a definirsi un “ingegnere” ponendo l’accento non tanto sulla semplice rappresentazione quanto sulla costruzione. Tra il 2003 e il 2011 espone in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero e realizza alcuni video grotteschi, vere e proprie riflessioni sui luoghi comuni degli artisti, e sui rapporti marginali tra arte e territorio.
Nel 2007 vince il Premio Agenore Fabbri e si trasferisce a Firenze.
Nel 2010 inizia a scrivere alcune allegorie dal titolo “I racconti funesti” che spiegano l’opera della costruzione – un processo che da quel momento lo assorbe totalmente – col disegno (gli spolveri), con la pittura, con la scrittura, il video, la performance.
Oggi, atleta, fa esercizi di equilibrio.