Padova. Palazzo Zabarella dedica una mostra dedicata a uno dei maggiori protagonisti dell’arte europea, Giovanni Fattori. L’esposizione (dal 24 ottobre 2015 al 28 marzo 2016) propone un percorso di riscoperta della potente pittura dell’artista che più di altri è stato capace di interpretare, lungo tutta la seconda metà del XIX secolo, le trasformazioni della sua società.
Curata da Francesca Dini, Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca, Fattori raccoglie oltre cento dipinti, in grado di ricostruire, attraverso un avvincente taglio cronologico – dallo spavaldo Autoritratto del 1854, agli ultimi capolavori eseguiti agli inizi del Novecento – la straordinaria versatilità di una lunga vicenda creativa. Il percorso allestito all’interno di Palazzo Zabarella infatti ricostruisce interamente la carriera di Giovanni Fattori, dalla rivoluzione dei Macchiaioli, in cui ha avuto un ruolo di primo piano, con opere come La rotonda di Palmieri a Livorno, alla sperimentazione infine di nuovi territori iconografici che lo ha avvicinato, per i risultati raggiunti, ad altri geni come Courbet o Cézanne.
Le doti di Fattori, dopo una formazione in ambito accademico, si sono rivelate piuttosto tardi, quando, superati i trent’anni, aveva partecipato alle animate serate del Caffè Michelangelo che è stato a Firenze il vivace palcoscenico della cosiddetta rivoluzione della “macchia”. Ma rispetto agli altri pittori che hanno fatto parte del movimento dei Macchiaioli, Fattori si è subito manifestato per la sua forte e indipendente personalità, capace delle scelte più coraggiose.
Nei drammatici capolavori della maturità, come Il muro bianco (In vedetta) o Lo staffato, espressi con un linguaggio che va oltre la dimensione della denuncia per raggiungere una prospettiva universale, Fattori è stato lucido interprete della delusione di una nazione, uscita dal Risorgimento, che non ha saputo realizzare quegli ideali di giustizia sociale in cui le giovani generazioni avevano creduto. Questa è la sua grandezza, che ne ha fatto subito un classico, paragonato ai maestri del Quattrocento, come il Beato Angelico, Paolo Uccello, ma anche a Goya e al contemporaneo Cézanne.
Vissuto a partire dal 1846 a Firenze, è però ritornato spesso nella sua Livorno, ma anche a Castiglioncello, il luogo prediletto dai Macchiaioli, di cui ha saputo rappresentarne, come pochi, la limpida luce. La sua ultima meta è stata la Maremma toscana, una terra aspra e selvaggia che, grazie ai capolavori dei suoi ultimi anni, è entrata nel mito, come la Provenza di Cézanne o la Polinesia di Gauguin. Anche in questo periodo ha saputo creare capolavori universali su un tema a lui prediletto, come in Riposo (Il carro rosso) della Pinacoteca di Brera e nel Pio bove dove affiora la suggestione di Carducci.
All’interno del percorso espositivo si dà conto anche alla sua produzione grafica, con una sezione che presenta una decina di fogli incisi ad acquaforte su zinco, in grado di dimostrare quanto Fattori, anche in questo campo, abbia toccato vertici assoluti, sia dal punto di vista tecnico che stilistico, nonostante la sua attività sia iniziata solo negli anni ottanta dell’Ottocento. Come per i dipinti, i soggetti ricorrenti sono i protagonisti della vita reale, siano essi contadini o soldati, attorniati da una natura indagata sempre con grande commozione.
Estratto dal testo in catalogo Marsilio editori il saggio di FERNANDO MAZZOCCA, curatore della mostra
Dalle avanguardie al cinema. La riscoperta e la celebrazione di Fattori nel Novecento
Il recupero e la rivalutazione dei Macchiaioli hanno occupato un posto privilegiato, rispetto a ogni altro movimento artistico, nell’ambito del vivace dibattito critico e della valorizzazione collezionistica che nella prima metà del Novecento, e nell’immediato dopoguerra, hanno investito la pittura dell’Ottocento italiano. In questo avvincente percorso, iniziato allo scadere del primo decennio del secolo nel clima delle avanguardie postimpressioniste e concluso tra i fermenti realisti degli anni cinquanta, la figura di Giovanni Fattori, considerato a parte rispetto agli altri esponenti dello schieramento macchiaiolo, è subito emersa e ha continuato a risaltare nella sua solitaria grandezza. Una fortuna che doveva suscitare l’insofferenza di quanti, come soprattutto Roberto Longhi, non avevano nascosto la propria ostilità verso la “beatificazione” dell’Ottocento, manifestandola anche in battute come quelle dello stesso Longhi che nel 1937, quando appariva ormai consolidato il “primato” fattoriano, usciva nella considerazione diventata celebre:
Mentre la buona pittura francese dell’Ottocento quasi s’inaugura con quel dipinto calcinoso ed ingrato, ma inconsapevolmente tanto simbolico, che s’intitola: «Bonjour, M. Courbet», è un peccato che ancora manchi alla moderna pittura italiana, oggi poi che molto si parla di composizioni a soggetto, un gran quadro che finalmente si chiami: «Buona notte, Signor Fattori». Non credo, insomma, alla definizione dello “stupido secolo xix°” perché mi par troppo estensiva; ma se si tratta di riservarla alla pittura italiana di quel centennio non mi opporrò che debolmente.
Sarà sempre Longhi a condividere, relativamente alla, secondo lui, indiscriminata promozione della pittura dell’Ottocento italiano proseguita nell’immediato dopoguerra, la spicciativa conclusione dell’amico Mino Macccari, per cui «anche invertendo l’ordine dei Fattori, il prodotto non cambia». Eppure aveva finito con l’ammettere la diversità e la superiorità del pittore livornese, quando nel fondamentale saggio L’Impressionismo e il gusto degli Italiani scritto come prefazione all’edizione italiana della Storia dell’Impressionismo di John Rewald, pubblicata nel 1949 da Sansoni, rifletteva come fosse «intanto cresciuta, nel decennio, la rivalutazione critica del Fattori, il migliore fra i Macchiaioli, dilatatasi però assai presto a tutta la cerchia».
Aveva ragione a considerare come negli anni venti avesse già fatto un lungo cammino, una fortuna iniziata ad apertura del decennio precedente, quando Ugo Ojetti, ormai ascoltato interprete del gusto corrente, aveva delineato un profilo indimenticabile di Fattori nella prima serie dei suoi Ritratti d’artisti italiani. Si trattava del «suo libro forse più riuscito e certo quello di maggiore successo», dove erano stati raccolti gli interventi sui pittori e scultori moderni pubblicati negli anni precedenti sul «Corriere della Sera» e su altri periodici. Ponendoli sullo stesso piano dei prediletti Cremona, Cesare Maccari, Michetti, Segantini, Tito, aveva offerto due ritratti esemplari di Signorini e di Fattori, consacrandoli come i due maggiori protagonisti del movimento macchiaiolo, di cui avevano espresso in maniera molto diversa le istanze innovatrici.
Alla vocazione internazionale, alle aspirazioni mondane e alla modernità della pittura di costume e dei paesaggi del primo, contrapponeva la solitaria e solenne epica del secondo, rievocata attraverso le opere che aveva avuto occasione di ammirare nello studio dell’artista ottantenne – scomparso infatti tre anni prima nel 1908 – situato al pianterreno dell’Accademia di Belle Arti di Firenze dove aveva insegnato. Lo sguardo di Ojetti appare davvero acuto nel cogliere la versatilità e la complessità di una pittura che aveva saputo conciliare l’impegno narrativo del genere storico e delle grandi scene di genere ambientate in Maremma con l’essenziale dimensione lirica dei piccoli paesaggi, coniugare la modernità con la tradizione. Mentre l’artista se ne stava «seduto nel mezzo» e continuava a sciorinare i ricordi dell’Italia risorgimentale e delle sue illusioni ormai archiviate, «alle pareti e sopra un tramezzo che emerge a metà della stanza» apparivano
grandi quadri di sobrio colore, con soldati e cavalli, butteri e buoi, tutti in movimento, così agitati da un’energia impulsiva che, a voltarsi, par di ritrovare uomini e bestie disposti in un altro gruppo o fuggiti lontano sulla polvere o sull’erba rada e riarsa, e paesaggi di Maremma e di Toscana fissati in linee essenziali, ritratti di paesi che sembrano d’un giottesco o di un quattrocentesco intorno a Masaccio ed a Piero, dove i monti e le piagge sono scarniti come in un’anatomia e alti alberi di poca fronda su pei declivi e per le ripe si piegano al vento come ruvide capigliature sopra una fronte rugosa, dove l’azzurro e le nuvole accendono o spengono gli occhi dei laghi, dei ruscelli, delle pozze, del mare lontano.
La conclusione, davanti a un realismo tanto potente da assumere una dimensione quasi simbolista e che Ojetti descriveva, infatti, con un dettato dannunziano, era che «se i giovani italiani li conoscessero tutti, potrebbero fare a meno d’andar fino in Francia ad adorare Cézanne…».
GIOVANNI FATTORI
Padova, Palazzo Zabarella
via degli Zabarella, 14
24 ottobre 2015 – 28 marzo 2016
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