Buio in sala. Lampeggi di Miró alle pareti. Sulle note di un Blues for Miró di Ellington del ’66 prendono ritmo le visioni segniche e biomorfiche dell’artista catalano. Milano chiama, Mirò risponde. Un centinaio di opere in trasferta all’antropologico Mudec fino a settembre prossimo. Pittura. Poesia. Musica. Scultura. Scritture criptate dal proprio inconscio. Linguaggi tradotti in una grande retrospettiva. All’ombra della nuvola di vetro di Chipperfield, squarci di luce accendono la “forza della materia” -come recita il titolo- tra sobrie atmosfere e arie soffuse. Il jazz di fondo esalta le cromie primarie graffiate dalla tempra dei neri. Un solfeggiar di note in ordine cronologico su uno spartito lungo mezzo secolo. Dal 1931 al 1981. Segni, simboli e personaggi si rincorrono per decenni galleggiando tra materia grezza e materiali di riuso tra spazi gassosi privi di peso. Onirici racconti custodi di due istanti: un primo impulso diretto e viscerale, un secondo calcolato e disciplinato.
In primis fu il seme scaricato su tela e tavola dalla mano elettrizzata di un artista contadino. E catalano, non spagnolo. Poi, il tempo creatore e l’inconscio riflessivo-produttivo completano nel tempo lo spazio. Lo popolano di personaggi: donna, stelle, uccelli. Figure dalla valenza universale. A metà tra il terreno e il divino, come le sue celebri scale. Le Costellazioni invece poste direttamente in cielo: elevano alla pace e alla contemplazione dell’universo. Vengono “catturate” da Mirò negli anni della guerra come forma di evasione dalla tragedia e dal fascismo. Germi di libertà che lo accompagneranno prepotentemente tutta la vita, biologica ed artistica. Franco appena preso il potere lo spedì nell’oblio assieme a libertà, giustizia e democrazia. Decenni terribili sublimati e superati a colpi di pennello contro le falangi franchiste. Alla fine la spuntò Mirò: nel giugno 1975 apriva le porte la Fondazione Joan Mirò di Barcellona, cinque mesi prima della morte del Caudillo. Il suo perpetuo e persistente impegno politico, sociale e culturale fu fondamentale. La Spagna tornò a sognare.
Miró con lei. In questi ultimi anni di vita mantenne la capacità di provocare e di creare un arte violenta e ribelle. Un vulcano in eruzione: la produzione fu anche e ancora più determinata. Lo si legge e respira in mostra. Nessuna autocelebrazione e fossilizzazione. Anzi, un frenetico ottantenne in preda a nuova giovinezza che brucia e lacera supporti e materiali disparati. Potenza e violenza sapientemente dosate nell’indole serena e irrequieta. Alla ricerca delle forme primordiali della materia. Forme che si impongono. Raschiandole affiorano. Tracciando si delineano. L’apparente semplicità e ingenuità di queste racchiude una complessità alchemico-poetica frutto di un inconscio calcolato, sorretto da un lavoro e un’incessante meditazione. Miró è artista assolutamente metodico a dispetto dell’apparenza anarchica, ingenua, infantile. Nulla è lasciato al caso, o quasi. L’arte ha bisogno di forza fisica e di allenamento. Poi un lampo improvviso e dirompente libera la magia. Pochi colori puri, composizioni oniriche nel blu, rosso, giallo e verde e la tela danza. Esplosioni di colore condotte attraverso un gesto impetuoso e brutale. Vibra la materia e si fa lirica. La poesia si fonde con la pittura. Il disegno, potere magico della matita, le celebra entrambe.
Assemblaggio e costruzione. Come la scultura. Universo di riciclo e l’aura avvolge lo scarto scolpito. Eterna sperimentazione dove si realizza l’alfabeto Miró. Segni, punti, linee, tratti. Il gesto e il processo. Miroglifici, miroglyphique come scrisse Raymond Queneau nel 1949. Simboli che evocano linguaggi ermetici, a lampi accessibili alle porte della ragione. Scavano nel sogno quanto la mente vi naufraga. Con le sue incursioni nel mondo onirico Mirò recupera personaggi perduti, evasi dalla cornici materiali e dalle reti censorie del super-ego umano. Violenza e intimità palpitano nelle opere dando voce a quella spiritualità primitiva che si nasconde nell’angolo più intimo della nostra anima. Trasversale, ancestrale: accarezza ognuno di noi sfruttando la materia in ogni suo plasma tecnico. Leggere l’etichette delle opere esposte per capire: olio, acquatinta, acquaforte, carburi, tela, carta, cartone, cera, pastello, china, inchiostri, acquerello, matita, guazzo, grafite, mastice, stoffa, acrilico, tavola, catrame, plastica, spago, nastro, metallo, argilla. Le forme dell’alfabeto di Mirò germogliavano sulle lastre di rame. Il bronzo piumato di un gallo segna le curve di una luna dipinta. Nella Notte scolpita in una testa, brillano calligrafie tessute nell’olio. Miró è un “classico” certo – la sua opera colpisce tutti perché è universale – ma è soprattutto un “magico“. Ha acceso la materia grezza donandole un’anima eterna, comprensibile a tutti.
Joan Miró, Donna nella notte, 1973; Due personaggi perseguitati da un uccello, 1976*
* © Photo Carlotta Coppo
* Barcellona, Fundació Joan Miró © Successió Miró by SIAE
* Le foto della mostra di Mirò al Mudec di Milano (senza didascalia) sono tutte di Luca Zuccala © ArtsLife
INFORMAZIONI UTILI
Miró. La forza della materia
a cura di Teresa Montaner, Joan Punyet Miró e Francesco Poli
MUDEC – Via Tortona 56, Milano
Fino all’11 settembre 2016