Dal 19 maggio al 31 dicembre 2016, presso la Fondazione Prada di Milano, va in scena la danza silenziosa della lubricità umana. Germano Celant presenta una selezione di opere di Edward Kienholz realizzate tra il 1959 e il 1964, alcune nate dalla collaborazione con la moglie Nancy Reddin. Edward Kienholz, artista ribelle e trasgressivo, esponente della Funk Art americana, fu attivo a Los Angeles a partire dal 1956, dove fondò la NOW Gallery e successivamente la Ferus Gallery, che divenne un importante centro d’avanguardia artistica per la città. Nel 1972 conobbe la moglie Nancy e con lei iniziò un sodalizio artistico che sarebbe durato per sempre.
In netto contrasto con l’universo galleristico newyorkese degli anni ’60/’70, che ruotava attorno alle policrome e patinate produzioni della Pop Art, favorita dai mass media e dai cardini più benestanti della cultura statunitense, i Kienholz portarono avanti con grande coraggio un nuovo volto dell’arte, repellente, cruento, perverso.
In un’epoca in cui si inneggiava al benessere e alla prosperità economica, le loro opere altamente controverse e dall’indiscussa potenza espressiva furono sempre al centro di accesi dibattiti, e ancora oggi costituiscono un potente schiaffo agli stereotipi rassicuranti del sistema occidentale.
Come spiega Celant, l’idea di fondo nasce dalla volontà di Kienholz di produrre qualcosa che “esca da un ambito incontaminato e autoreferente, tipico dell’espressionismo astratto, in cui il linguaggio esalta l’artista solitario che combatte contro il degrado dell’essere umano dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma di fatto lo rende eroe, esaltandone la componente narcisistica”.
A tutto ciò, Kienholz contrappone un’esperienza in cui l’arte diviene strumento per indagare le realtà sociali più abiette ed esposte al vizio, distillandone l’inaudita violenza e riversandola in scene raccapriccianti che divengono teatrini viventi del marciume umano, senza censure e senza filtri. I soggetti toccano tematiche diverse e complesse: la commercializzazione del sesso e del corpo femminile in pubblicità (The Bronze Pinball Machine with Woman Affixed Also), la corruzione della Chiesa come istituzione (The Nativity, 76 J.C.s Led the Big Charade), l’abuso sui minori e di tipo razziale, le violenze domestiche (Five Car Stud, The Bear Chair, Twilight Home, Bout Roud Eleven, The Rhinestone Beaver Peep Show Triptych), la strumentalizzazione dannosa e deviante dei mass media, televisione in primis (Useful Art n.1, Surely Shirley, Chicken Little), la denuncia aperta e sfrontata del sistema giuridico americano (The Caddy Court) ma anche della globalizzazione e del profondo squilibrio nella distribuzione della ricchezza nel mondo (The Merry-Go-World or Begat by Chance ad the Wonder Horse Trigger).
Tutte e ventisei le opere in mostra non si limitano al concetto tradizionale di opera d’arte: definite spesso “tableaux vivants”, “environmental assemblages”, “installazioni-ambienti”, esse rievocano scene perverse, comportamenti ambigui, azioni brutali, situazioni ansiogene che generano traumi. L’uso di manichini in gesso a grandezza naturale e di materiali di recupero contribuisce al senso di povertà, che è fisica ma soprattutto spirituale. La mostra include anche un certo numero di “concept tableaux” e drawings, ottenuti grazie alla tecnica di assemblage di vari materiali come crocifissi alterati, pezzi di bambole, stracci, mobili in legno, plastica, ferraglia e molto altro.
Spesso, l’accostamento di due o più materiali conferisce un aspetto volutamente disturbante, come nel caso del corpo di Gesù nascituro nel gruppo “The Nativity” che diviene un fanale lampeggiante da cantiere, oppure le manine e i piedini ricavati da vecchi bambolotti e fissati alle estremità delle 76 croci appese al muro nella installazione “76 J.C.s Led the Big Charade”, opera di straordinario impatto visivo allestita su un muro di oltre 5 metri. Per ottenere un effetto ancora più shockante, l‘artista sceglie di dare un’identità ben definita ai suoi personaggi, ossia il volto di persone reali ed appartenenti alla propria cerchia di amicizie: così il faccione minaccioso di un vicino di casa dei Kienholz incombe in “Twilight Home” e in “Bout Round Eleven”, i due gruppi dedicati alla violenza sui minori e all’incomunicabilità di coppia.
L’origine della scelta di utilizzare l’assemblage rimanda alla prima fase di attività di Kienholz, cominciata intorno agli anni ’50, quando a causa della povertà dovette girare molto ed autopromuoversi come “Esperto” ancora prima che come artista: la mancanza di soldi lo costrinse infine ad ideare un modo alternativo per reperire materiale. Col tempo, grazie alla vendita dei progetti preparatori delle sue opere, le cosiddette sceneggiature, Kienholz riuscì ad auto-finanziarsi e a realizzare alcune fra le opere di maggiore impatto dell’arte contemporanea del secondo novecento. Percorrendo le sale della mostra, siamo portati a provare emozioni contrastanti. L’orrore e il ribrezzo convivono con il desiderio e la curiosità insiti nell’animo umano di conoscere, di vedere coi nostri occhi, di spiare, di partecipare a ciò che ci viene mostrato, impulsi naturali che Kienholz conosce molto bene e sui quali costruisce le atmosfere dei suoi tableaux.
Man mano che percorriamo questo sentiero infernale, ricadiamo automaticamente in una condizione voyeuristica che ci permette di girare intorno alle opere, di osservarne ogni piccolo dettaglio, di assistere alle scene da vari punti di vista senza esserne coinvolti direttamente. Se non addirittura di prendere parte fisicamente all’orrore, quando questo viene camuffato come un gioco: il mostruoso carosello dal titolo “The Merry-Go-World or Begat by Chance and the Wonder Horse Trigger” (1991-94) con i suoi 8 settori corrispondenti ad alcune aree disagiate del mondo, ognuna identificata da un inquietante animale-simbolo, esprime la casualità del nascere in condizioni estreme di povertà e degrado, lontano dal facoltoso Occidente. Una piccola tigre malconcia e denutrita, dallo sguardo vitreo e e le fauci spalancate in un ruggito a metà tra la paura e l’impulso bestiale di azzannare, sembra implorarci di varcare la soglia fin dentro la pancia oscura della giostra per scoprire cosa si cela all’interno, ma solo dopo avere girato la ruota della fortuna.
In conclusione troviamo lei. “Five Car Stud”, che dà titolo alla mostra, l’opera più celebre dell’intera carriera di Kienholz: realizzata tra il 1969 e il 1972, anno in cui venne esibita a documenta 5 a Kassels, prima di poter vedere la luce fu tenuta nascosta nel deposito di un collezionista giapponese per quasi quarant’anni. Oggi è parte della collezione Prada, ed è presente in Italia per la prima volta proprio in questa occasione. L’emozione che si prova accedendo a questa enorme stanza quasi completamente buia è indescrivibile. Il momento è catartico: nell’esatto istante in cui penetriamo all’interno di Five Car Stud, comprendiamo che tutto ciò che abbiamo visto nell’ultima mezz’ora non è che una fase preparatoria a questo. Davanti all’atto di violenza perpetrato dagli uomini bianchi sull’uomo di colore, il cui corpo consiste in una vasca di benzina in cui galleggiano le lettere fluo che compongono la parola “Nigger”, ci sentiamo impotenti, e curiosi, e schifati, e affamati di dettagli, e pietrificati dalla pena, ma restiamo lì. Restiamo immobili nella penombra ad osservare la scena cristallizzata dai fari accecanti delle quattro automobili che diffondono una clichéistica musichetta country, e nella nostra mente la violenza prende forma come la scena di un film horror.
Siamo incastrati tra realtà e finzione, e ne godiamo. Siamo ormai inghiottiti nel circo della bestialità umana, e nella realizzazione di questa metamorfosi sta l’enorme successo dell’arte di Kienholz.
Per tutte le informazioni: http://www.fondazioneprada.org/project/kienholz-five-car-stud/
Mistero buffo di via Lorenzini
tutto perfetto: proroga della mostra in dicembre…tanto c’è tempo fino al 9 aprile e poi invece ti chiudono tutto senza nemmeno avvisare. Giusto un post su FB il 18 marzo che chiudono il 19. Grazie Fondazione Prada, well done!