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La 57° Biennale di Venezia tra arte e ricerca (vana?) di un nuovo umanesimo

57 biennale viva arte viva mostra internazionale venezia Sam Lewitt
57 biennale viva arte viva mostra internazionale venezia
Sam Lewitt

Christine Macel, curatrice della 57ma edizione della Biennale di Venezia, ha detto che questa sarà «una Biennale con gli artisti, degli artisti, per gli artisti», un lungo viaggio fino al 26 novembre che apre alla possibilità di un nuovo umanesimo. Ha molto insistito su questo punto: «L’arte di oggi di fronte ai conflitti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità», in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo.

Ma davvero l’arte contemporanea può assolvere a questo compito? O l’ha svolto sino ad adesso? Per umanesimo, si intende letteralmente ««un movimento culturale affermatosi in Italia dalla metà del secolo XIV e poi diffusosi in Europa, che, muovendo da uno studio rinnovato del mondo classico, mirava a rivalutare i valori propriamente terreni dell’esperienza umana, in contrapposizione alla dimensione religiosa e oltremondana prevalente nel medioevo» (Garzanti). Più in generale, definisce «qualsiasi concezione che riconosce la centralità della persona  nella realtà, o che intende rivendicarne i diritti, l’esigenza di libertà e la dignità individuale».

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Sheila Hicks alla 57a Biennale di Venezia

Ma l’arte contemporanea rispetta questi concetti? La verità, innanzitutto, è che essa, nata nel 1917 con l’orinale capovolto di Marcel Duchamp, dopo un secolo di vita mostra ormai evidenti segni di stanchezza. In questi anni, ha svolto sommariamente un compito di rottura. Ma oggi non le bastano più solo idee che si rincorrono con l’obiettivo di essere una più rivoluzionaria dell’altra. Come sostiene giustamente il critico Francesco Bonami, «provocazione dopo provocazione, ha esaurito il suo potere di stupire». Per tornare a essere utile, spiega Bonami, deve ritrovare la capacità di inventare e narrare storie, «recuperando quel cocktail di ingenuità e genialità che è alla base della creatività umana». Se si eccettua Picasso, che con Guernica nel 1937 realizzò un’opera che diventò famosa nel mondo, facendo conoscere a tutti la storia del conflitto fratricida che si stava consumando in Spagna, non sono molti gli artisti che hanno ricoperto questo ruolo nell’epoca più recente. Qualche eccezione c’è, come Zoran Music, che deportato a Dachau durante la seconda guerra mondiale, realizzò i suoi lavori più importanti dipingendo la vita terribile dei campi di concentramento. Ma al di là di questi e pochi altri casi, si può ammettere francamente che l’arte contemporanea ha ricoperto soprattutto un ruolo di provocazione e di rottura. Mentre, se si vuole difendere davvero l’umanesimo, come si auspica Christine Macel (e anche il presidente della Biennale, Paolo Baratta: «Il mondo dell’arte è un mondo di coraggio, di capacità di resistenza, per non cedere alla banalità e ai vizi della nostra vita quotidiana»), la prima cosa è che bisogna assolutamente tornare a essere accessibili.

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Julian Charrière

L’oggetto di un’opera d’arte deve diventare un universo di pensieri, l’inizio di una storia, come spiega ancora Bonami, citando l’esempio del bambino di Charles Ray. Bisogna tornare a Gericault che nel dipinto la Zattera di Medusa, esposto al Louvre agli inizi del 1800, rappresentava una tragedia, il naufragio di una nave, un grande fatto di cronaca avvenuto nel 1815 che aveva fortemente impressionato l’opinione pubblica, anche perché si narrarono casi di cannibalismo che avrebbero permesso ad alcuni marinai di sopravvivere. Gericault realizzò quest’opera in due puntate. La prima volta scendendo più minuziosamente nei dettagli. La seconda, che è quella che è giunta a noi, censurando i corpi che avevano subito queste forme di orrori. Lo dipinse nel 1818 e lo espose l’anno dopo. Usò come metafore delle figure classiche, come il vecchio seduto sulla punta della zattera, tratteggiato con le sembianze di un semidio, con il capo appoggiato su una mano e lo sguardo disperato. Questo vecchio racconta le realtà del dramma, la sua sconfitta, mentre altri marinai, sul lato opposto della zattera inseguono con gli occhi miraggi perduti. Poi ci sono soltanto corpi abbandonati. Uno solo, appoggiato sulla schiena di un altro come se lo baciasse, può richiamare il cannibalismo. Non ci sono gambe tranciate, corpi divorati. Eppure, questo quadro trasmette lo stesso tutta la disperazione di quell’episodio.

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Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818-19

Con la pittura, Gericault aveva raccontato un fatto di cronaca descritto solo a parole sui giornali. Oggi, questo sarebbe impensabile. Le televisioni e il web ci rimandano in presa diretta le immagini più crudeli della realtà, ci possono persino raccontare l’esecuzione di una condanna a morte, scatenando polemiche infinite sui giornali, ci descrivono il più minuziosamente possible gli orrori della nostra società moderna, e non solo le sue guerre. Ma c’è qualcosa che non riusciranno mai a fare, qualcosa che sta dentro al nostro dolore, che lo scandaglia che lo spiega, qualcosa che lo definisce nella sua essenza più profonda. Una telecamera o una macchina fotografica riprendono la superficie di una tragedia, possono anche immortalare i dettagli più terribili, il terrore negli occhi di una vittima, la tragedia di un bambino, il gesto o l’azione più crudele, ma non potranno mai descrivere il significato del dolore.
Perchè questo è il potere di un artista.

La guida completa alla 57a Biennale di Venezia: http://www.artslife.com/2017/05/08/biennale-di-venezia-2017-57-edizione-guida-completa/

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Maria Lai alla 57a Biennale
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