Sferragliano figurine di treni ritagliate sulla carta. Lanciate a getto d’inchiostro, sopraffatte da appunti jazz. Sciolte tra vapori di locomotive che macchiano le arie del Tempo, preziosamente ingiallite e velatamente scolorite. Arie rigide e ruvide, da copertina e copertura, custodi dell’intera produzione grafica di Luca Pignatelli (1962). Opere su carta, a cura di Danilo Eccher, edito da Skira. Una raccolta essenziale dei cicli cartacei dell’artista milanese, dagli anni Novanta a oggi, corredata di saggi e antologia critica finale. Tra le (quasi trecento) pagine scorrono le acidità dei Treni, con relative “stazioni impossibili”, e le penombre dei Circhi di notte; gli Arazzi Italiani, tessuti di grovigli vegetali incorniciati in reticolati bruni, e gli Standard, popolati di grattacieli, palazzi, giardini, bombardieri. Una miscellanea di sculture, strutture, architetture. E scritture. Del cosmo: vedi alla voce Cosmografie, collage materici costellati di segni di gesso piovuti dal cielo. Sedimentazioni che si amalgamano, in balia dello spazio, assuefatte dal tempo. Universali, come la traccia che segna l’opera dell’artista e ne fa matrice: la nobile semplicità della quieta grandezza della figura classica. Siano un busto, una statua o una testa. Vedi la copertina (prima e quarta) “bifronte” del volume, “prodotto” di uno stesso Standard datato 2010-2015. Due “classici” di Pignatelli che traspaiono iconici e archetipici su paesaggi liquidi, segnati dalla patina colata del Tempo. Modellatore. Scrittore. Pittore. Da qui partiamo.
Cosa rappresenta il Tempo e cosa lascia sulla carta la sua patina?
Il tempo rappresenta un punto centrale del mio lavoro, una quarta dimensione tangibile, una misura aggiuntiva e percorribile in più direzioni. Per Leibniz il tempo era l’ordine della successione nella tensione verso il progresso e il cambiamento, ma esiste un tempo soggettivo a cui faccio riferimento nel mio lavoro e che più in generale ritrovo nel mio mondo, dove l’ordine della successione non rappresenta più un punto unico e assoluto. Attraverso il mio lavoro, anche la patina del tempo -come tu preferisci definirla- rappresenta il tentativo di ricercare l’utopia e il fascino delle forme trascorse, migrate da luoghi e momenti diversi e lontani.
Che valore ha l’immagine e la simbologia “classica”, una testa di Afrodite per esempio, oltre la colta citazione?
Afrodite ha per me un valore iconico e popolare come l’immaginetta della Madonna sullo scaffale del tabaccaio a Pompei o come la testa sui cartelloni stradali con Moira Orfei o la testa di Marylin di Warhol. È autoriproducibile e generativa.
La fragilità della carta calza a pennello con la precarietà della bellezza raffigurata nelle tue opere.
È vero, ci sono delle similitudini, dei punti di incontro. Ma è anche vero che a volte il segno si fa brutale, la sperimentazione grafica diventa quasi aggressiva, occupa la carta afflitta da una sorta di horror vacui.
La differenza sostanziale e significativa di lavorare con la carta rispetto agli altri supporti. Come si traduce e concilia il tuo tradizionale formato monumentale con il supporto cartaceo?
Non vedo e nemmeno percepisco alcuna differenza, se non forse nell’atteggiamento che viene influenzato dalla dimensione spaziale in cui avviene la produzione: mentre il grande formato impone, infatti, una sorta di ritualità che prevede l’ingresso in studio e il mettersi nelle condizioni di creare, lavorare su carte e disegni è possibile ovunque. Il pensiero si trasforma immediatamente in gesto e si esprime molto più velocemente, perché strettamente connessa alla mia dimensione personale. Il fare diventa quindi un momento intimo, quasi un diario privato, la registrazione di un impulso, ma anche il luogo in cui questa prima intuizione si fa progetto.
I Treni, dai colori più acidi-pop, con il loro fumo liquido tagliano anche le tue carte. Quali immagini evocano e rappresentano la locomotiva e il fumo?
Rappresentano visivamente un contrasto, generato dall’accostamento tra forma e colore. Cerco di dare forma alla forza, come una spinta o un urtate contro. Il disegno delle locomotive era inizialmente accademico, come i modellini di una scatola di montaggio, i colori però, da quelli forniti per la modellistica statica sono poi sottoposti a bruschi cambiamenti attraverso immersioni in vasche con componenti vari e corrosivi come acidi di ogni tipo a base naturale, ma capaci di portare la carta verso la distruzione. Questi lavori, questi piccoli trenini colorati con le loro stazioni impossibili: le architetture di Vignola o del Serlio. Amo moltissimo questi architetti, le loro opere hanno per me un valore simbolico ed evocativo spesso riferito alle guerre, all’importanza dell’approdo, dell’arrivare, ma anche della perdita e del distacco.
La potenza del nero nella tua opera. Alcune tue carte sono prepotentemente segnate dalla forza di questo colore.
Infatti! Mi riferisco ai neri degli Americani e di Burri, al nero che è riempitivo violento che assenza nella presenza totale. Guardo anche alle stanze oscure del sottosuolo e dei rifugi, ma anche ai neri della teoria delle ombre e al disegno ingegneristico dei rivoluzionari francesi come Ledoux o Boullèe dove i neri delle finestre e delle ombre conferiscono come in De Chirico un senso di pulizia ma anche di tragedia.
Il valore della scrittura nella tua opera, conciliazione di temi come memoria, tempo, storia, architettura e così via. Nelle tue opere su carta è presente (anche) un ciclo intitolato Cosmografia, scrittura del cosmo. Di cosa si tratta?
Si tratta del mistero e dell’indecifrabilità. Sono strutture di segni che solo apparentemente si identificano nella nostra immagine del cosmo ma che in realtà nascondono segni di varia natura spesso cancellati e ridisegnati col gesso. Sono tracce lasciate anche dal caso ma sempre all’interno di strutture precise e ordinate inizialmente attraverso un vero e proprio impianto di segni.
Tutte le informazioni: http://www.skira.net/books/luca-pignatelli