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Beata Ignoranza, ovvero della Politica e della Cultura

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Udite, udite! C’è la politica che parla di cultura! Ma dove? Ma come?
Dire che la cultura è un asset importante del nostro Paese, ripetere le solite cifre sui visitatori dei musei, i turisti e gli introiti che ogni anno derivano da questi flussi non è parlare di cultura. Sarebbe in grado di farlo anche una ragazzino delle scuole medie opportunamente preparato. Certo, abbiamo avuto negli ultimi anni dei miglioramenti. È innegabile. Ma davvero vogliamo dire che la nostra cultura viva un periodo di grande sviluppo? Sono così tante le cose da affrontare e sono così poche le persone che ne parlano.
Ecco perché, chiunque vinca le elezioni, la cultura perderà comunque.
Nei discorsi dei pretendenti, la Cultura è un oggetto senza dimensione e senza concretezza, un conoide di sturm che spazia dalla formazione ai presidi territoriali, dalla previsione di politiche fiscali turistiche all’estensione dell’Artbonus.
Ma di che cosa stiamo parlando?
Queste proposte non sono altro che il riciclo di idee vecchie, che potevano, anzi dovevano essere già realizzate. Oggi si dovrebbe parlare di altro, non di piccoli aggiustamenti a quanto mal realizzato nel passato.
Sono anni che si ripete che l’Artbonus non funziona, ma il Ministro, ha sempre dichiarato successi su successi salvo ratificare all’interno del documento programmatico che lo strumento necessita di una revisione importante. Sono anni che si dice che la cultura debba avere una politica fiscale unitaria, e adesso emerge nei prossimi programmi elettorali. Sono anni che ripetiamo le stesse cose e i programmi elettorali fanno presagire che per anni ancora dovremo continuare a farlo.
Nulla di quanto letto giunge come una visione o come innovazione. In pratica, nessuna delle proposte avanzate sarebbe giudicata come “spesa ammissibile” per un bando rivolto all’imprenditoria. Non è chiaro il paradosso?

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Aprire i musei principali fino a mezzanotte è una cosa che si professa da almeno dieci anni in ambito museologico, e la non-realizzazione di questa visione è derivata semplicemente dagli ostacoli che l’apparato burocratico imponeva (leggi, contratti dei custodi e della guardiania, e affini); la rivoluzione del FUS è invece una chimera tentata da tutti, ma che nessuno è mai riuscito a fare sul serio (tutti i partiti politici in gioco ci hanno già provato) e sul sito del Movimento 5 Stelle, alla sezione “programma” fino a qualche giorno fa corrispondeva una pagina errore 404 che rimanda alla Home Page di Beppe Grillo.

Questi programmi elettorali sono soltanto l’ennesima riprova di una condizione che ormai conosciamo da tempo. La politica non è in grado di guardare al futuro del Paese. E non per cattiveria o altro, semplicemente perché non sa farlo.

Se guardiamo al settore culturale appare chiara un’esigenza unanime di tutti gli operatori (più privati che pubblici, a dire il vero): che la politica e la burocrazia, che il settore pubblico tutto, insomma, smetta di essere d’intralcio.

Facciamola dunque una rivoluzione: si potrebbe trasformare completamente le elezioni ed evitare siano i partiti a fare i programmi. Se ciò che di meglio può fare lo Stato è evitare di interferire con il progresso che il nostro Paese sarebbe capace di creare, allora si dovrebbe fare una duplice votazione.
Sarebbe semplicissimo: da un lato ci sarebbero delle figure “accreditate” (Università, esperti del settore, imprese, ecc.) che propongono dei programmi politici e dall’altro ci sarebbero degli organi di partito.
Le elezioni avverrebbero in due fasi: la prima, quella sui programmi, prevedrebbe l’elezione dei programmi che più interessano i cittadini. La seconda invece sarebbe come una gara pubblica, in cui i Partiti Politici, visti i programmi (le esigenze del pubblico), esprimono la loro offerta sulla base di criteri valutativi formalizzati con il principio dell’Offerta Economicamente più Vantaggiosa.
Così si stabilirebbe un principio di democrazia che oggi sembra mancare e forse, più che alle chiacchiere, inizieremmo a guardare ai risultati. E al futuro.

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