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Guggenheim-Gam. Una tempesta dal paradiso: il vento che soffia su Villa Reale di Milano

Abbas Akhavan, Studio per un Monumento (2013-2016) Abbas Akhavan, Studio per un Monumento (2013-2016)
Abbas Akhavan, Studio per un Monumento (2013-2016)
Abbas Akhavan, Studio per un Monumento (2013-2016)

La Galleria d’Arte Moderna di Milano (GAM) e il Guggenheim Museum di New York presentano Una Tempesta dal Paradiso: Arte Contemporanea del Medio Oriente e Nord Africa. Dall’11 aprile al 17 giugno lo spazio espositivo accoglierà la mostra dall’ampio respiro internazionale.

È la terza tappa del Guggenheim UBS MAP Global Art Initiative, progetto inteso a valorizzare l’arte di paesi periferici nel sistema artistico come l’Asia Meridionale e Sudorientale, l’America Latina, il Medio Oriente e il Nord Africa. 16 lavori di 13 artisti provenienti dalle regioni del Medio Oriente e Nord Africa saranno al centro di un’esposizione che declina il linguaggio contemporaneo sullo sfondo neoclassico della Galleria d’Arte Moderna meneghina.

L’analisi proposta è sottile ed invita il visitatore ad immergersi nella complessità del presente per contestualizzarlo nel passato e proiettarlo verso il futuro. Il percorso sfida le abitudini sociali e ci spoglia delle nostre convinzioni, nel clima bellicoso e precario di paesi ad un soffio dallo sgretolamento ognuno ha il dovere di porre il proprio sguardo critico al di là del dato sensibile. La tempesta arriva dolce ma inesorabile, non possiamo opporci con il corpo ma lo sguardo, quello si, può soffermarsi qualche attimo in più e cogliere un battito sotto le macerie.

Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. (Walter Benjamin, commento all’opera Angelus Novus di Paul Klee)

Paul Klee, Angelus Novus (1920)
Paul Klee, Angelus Novus (1920)

Walter Benjamin e Paul Klee dettano la linea di ribellione ideologica contro un progresso fittizio edificato sul rifiuto di un passato considerato fallimentare. Il testo del filosofo tedesco, dal quale la mostra prende il titolo Una tempesta dal paradiso, commenta l’opera Angelus Novus del pittore surrealista. Un angelo procede con le ali spiegate ed il corpo protratto in avanti, lascia dietro di sé un disastro non più ricomponibile: guardare avanti è l’unica possibilità. E invece no; lo sguardo ruota di 180 gradi e cade proprio sulle rovine da cui cerca di scappare. L’angelo muove verso il futuro ma dandogli le spalle. Cerca il riscatto dal dolore, dagli errori; cerca di ristabilire i valori, il sopravvissuto alla tragedia. È un procedimento destrutturante la concezione di tempo lineare volto al progresso, dove ogni azione umana ha senso solo nell’ottica di una progettualità futura. L’angelo di Klee è il cortocircuito della società ottimista ed imbonitrice, da cui anche gli artisti in mostra hanno imparato a diffidare.

Rokni Haerizadeh, Ma una Tempesta Spira dal Paradiso (2014)
Rokni Haerizadeh, Ma una Tempesta Spira dal Paradiso (2014)

Lo sa bene Rokni Haerizadeh che da quella tempesta trae il nome per la sua opera Ma una Tempesta Spira dal Paradiso (2010). Senza rinunciare alla poesia, l’artista di Teheran dissemina nei suoi quadri una forte carica politica. Partendo da una base fotografica, di solito un’immagine celebre per i numerosi passaggi per i canali di comunicazione, l’artista stravolge alcuni dettagli della scena trasportandola su un palcoscenico surreale. Animali ed altre creature fantastiche prendono forma in questa astratta dimensione grottesca, che altro non è che una caricatura della strumentazione mediatica. La decadente società contemporanea non può uscire dalla spirale di “contrabbando concettuale” in cui si è inserita. La tempesta di Haerizadeh non rimuove le menzogne, ma ne accentua la natura fallace grazie al suo linguaggio immaginifico.

In fuga da una verità imboccata sono anche Joana Hadjithomas e Khalil Joirege, dalla cui collaborazione nasce Immagini Latenti, Diario di un Fotografo, 177 Giorni di Performance (2015). Spaventati dal tradimento che le immagini portano con sé, i due artisti di Beirut camminano sul confine tra mito e realtà dando vita ad un ipotetico fotografo, Abdallah Farah, autore di un libro fotografico immaginario. Ma tale è l’inaffidabilità della cronaca odierna che gli scatti sono stati sostituiti da una piccola descrizione. È un invito a riflettere più che a commentare, a sperimentare prima di dare per assodato. Si tratta di chiedersi costantemente cosa abbiamo di fronte, con l’atteggiamento dubitativo necessario a ricercare il vero. Non è sempre facile distinguere giusto e sbagliato, la causa dall’effetto. Ce lo ricorda Hassan Khan che pone il suo Corrimano di Banca (2010) in una posizione ambigua, sospeso a mezz’aria è impossibile stabilire se stia scendendo o salendo. Il corrimano, che riprende quello della Banca d’Egitto Misr, suggerisce tutta la difficoltà insita nel districare l’enigma della società, con le sue strutture gerarchiche e dinamiche ora private, ora collettive.

Kader Attia, Senza titolo (Ghardaia), 2009
Kader Attia, Senza titolo (Ghardaia), 2009

Alla suggestioni di una certezza spezzata si oppone la solidità dell’aspetto architettonico della mostra. Le costruzioni sono il luogo segreto dove ricercare i valori che l’angelo di Klee andava cercando, come nella città di cuscus di Kader Attia (Senza Titolo-Ghardaia, 2009) o Paesaggi Tremanti (2016) di Ali Cherri, che indaga le irreparabili crepe geologiche e allo stesso tempo sociali del Libano. Da qui la necessità aggrapparsi a ciò che faticosamente si è costruito per spingersi verso un futuro che necessariamente deve essere migliore, perché “qualunque cosa è possibile quando tutto è perduto”. Questo messaggio di speranza appartiene a Lida Abdul e la sua opera-video In Transito (2008) ne è profondamente intrisa. Un gruppo di bambini è ripreso nell’azione di giocare attorno alla carcassa di un aereo sovietico. Ad uno sguardo più attento, appare chiara la loro intenzione di ricucire le ferite del veicolo. Raccolgono quindi batuffoli di cotone, saltano sulle ali e sul dorso del gigante sconfitto, ne tappano i buchi con infinito ottimismo. Con delle corde provano a dargli vita, movimento, senza tregua. Poco importa se non volerà mai più, poco importa se l’Afghanistan forse non verrà mai ricostruito, se davanti alle macerie la tempesta arriva e ci soffia via. Mantenere quei fili attaccati, la testa girata, forse è l’unico modo per salvarsi.

Hassan Khan, Corrimano di Banca (2010)
Hassan Khan, Corrimano di Banca (2010)

Il sito ufficiale della GAM per ulteriori informazioni.

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