5 ore di macchina da Milano, 3 e mezza da Genova, 2 da Ventimiglia. Se no, aereo. Sicuro, 20 minuti di traghetto da La Tour Fondue accompagnati da una quindicina a piedi o 5 di pedalate con vélo. Consigliata, la bicicletta, poi per girare l’isola, dalle spiagge –Notre Dame su tutte- al faro. Viaggio dentro la nuovissima (ha aperto lo scorso 2 giugno) Fondation Carmignac nella paradisiaca Porquerolles, la più grande delle cosiddette Isole d’oro, dentro il parco nazionale di Port Cros, limite occidentale della Costa Azzurra, piena Provenza. Il nostro reportage con foto.
In punta di piedi. Nudi. Letteralmente, o meno. Come la Fondazione si è insediata sull’isola, come noi ci insinuiamo nella Fondazione. Da ambo le parti una fruizione silenziosa. Fondazione Carmignac si è inserita perfettamente nella vita incontaminata di Porquerolles, mimetizzandosi nella macchia mediterranea dell’isola. Lo ha fatto, celandosi sotto le fondamenta di una ex casa colonica provenzale, escamotage dei Messieurs Carmignac (Edouard e Charles, il figlio) e architetti per dribblare i rigorosissimi vincoli paesaggistici. Lo fa, lasciandosi assaporare lentamente attraverso una sorta di viaggio new age fisico-mentale calati -come tengono a precisare- in un “silenzio interiore ed esteriore”: traversata obbligatoria in traghetto dalla terraferma all’Isola; passeggiata o biciclettata dal porticciolo accompagnati solo dal frinire delle cicale; assunzione di bevanda di intrugli provenzali purificanti serviti da carretti di legno molto hipster; levata di scarpe coatta per assaporare la terra sotto i piedi e lasciarsi plasmare la pianta dalla “energia” della pietra provenzale. Stesso discorso per il Bookshop, ovviamente “esperienziale”, accanto all’ingresso vista Parco delle Sculture, dove una shopper di tela costa 25 euro e una semplice cartolina 4. Tutto coerente col liturgico e radical mood della Fondazione. Passati indenni al -come lo chiamano qua- “rituale” d’iniziazione (che termina alla fine del “viaggio” con “un bicchiere di vino delle vigne del posto e un pasto biologico sotto i pini”), abbandoniamo le scarpe al loro volere.
Inizio, giù dalle scale (o come dicono qua: “scendere verso l’arte «privi di sè»”, ma lascerei perdere). Un’onda a gradoni che immette nel ventre della Fondazione attraversando la Ciclotrama di ricamate connessioni della brasiliana Janaina Mello Landini (São Gotardo, 1974). Un cornicione di corda che avvolge l’arco delle scale infrangendosi come terminazioni nervose negli spilli conficcati alla parete. Sottoterra, ovattati, 7 metri sotto l’antica fattoria provenzale convertita in villa da Henri Vidal negli anni 80, set del film Pierrot le fou di Jean-Luc Godard. Gli spazi delle gallerie totalmente reinventati dagli architetti Mouktar Feroudj e Sébastien Bilodeau dello studio GMAA insieme ad Atelier Barani. Come un fondale marino, 2000 metri quadrati di sale bianchissme bagnate da soffitti acquatici che filtrano la luce del sole. Stanze comunicanti sobrie e squadrate inframmezzate da pareti mobili, blu oltremare per l’occasione, pivotanti che di volta in volta reinventano gli spazi per le mostre. Spazi raccolti sotto la luce, come vorrebbe Le Corbusier. Dove la luce sublima il volume e con l’acqua diviene elemento architettonico.
Una goccia tessuta di materia fluttua nell’aria e riflette un’ombra a sfera sul pavimento, opera di Mark Bradford (Los Angeles, 1961) fresco di Biennale dell’anno scorso. Di fronte lo Zing di Basquiat del 1984 e un Level as Level di Ed Ruscha del 2002. Ruscha, che con il suo monumentale e cubitale Sea of Desire nel giardino di sculture qui fuori ispira la temporanea fino al 4 novembre prossimo. Un sensuale e rivoluzionario Mare del Desiderio, a cura di Dieter Buchhart, che si sviluppa sui due livelli della struttura attingendo a opere della fondazione e a prestiti museali, dal Botticelli della Galleria Sabauda di Torino alle spiagge patinate e puntinate di Lichtenstein della Beyeler. 70 opere dal Dopoguerra a oggi permeate dai concetti di “cambiamento, utopia, ribellione, libertà, bellezza”. Un fin troppio vasto (e fin troppo comodo) calderone condito da opere di qualità eccelsa con spunti e dialoghi interessanti. Un Sea of desire che rumoreggia incessante al di là della parete iniziatica del trittico Ruscha, Bradford, Basquiat. E’ One hundred fish fountain di Bruce Nauman del 2005 installata appositamente qua per l’apertura della fondazione. Lo stagno-fontana dell’artista americano che rimanda alle sedute di pesca d’infanzia col padre. Pesci che volano sulla vasca, sospesi nell’aria, e sprizzano acqua da tutti i pori, mentre i faccioni seriali di Lenin e Mao di Andy Warhol sbucano austeri dal vetro separatore. Una parete vista pesci che a sua volta contempla una “Scena in spiaggia” pullulante di procaci bagnanti e una piccola starfish che dà il titolo all’opera. Introduzione alla Pop di Roy. Parata di stelle (e strisce) delle bionde mito del’America anni sessanta a fumetto accompagnate da neoplatoniche bellezze fiorentine quattrocentesche di Botticelli. Qua bionda, lì arancio, chiome e bellezze che si riverberano da una parete all’altra, tra ideali eterni, frustrazioni ammiccanti e depressioni allusive.
Passaggio astratto di fondo con Richter, Rothko, De Kooning. Breve ritorno alla figurazione tra l’intersezione di sguardi di un primissimo Richter (1964) e un classico Raysse (1962). Arrivo in crociera, il centro candido e spoglio, fulcro ed emanazione della struttura a croce con piscina sul tetto che disegna onde luminose sul pavimento. Diramazione gravitazionale. Da un lato la Cappella marina site specific (2018) di Miguel Barcelò densa di calamari giganti; dall’altro, le assonanze visive di Klein, Calder, Arunanondchai e Cattelan, amatissimo da Carmignac senior. Picasso di Calder guarda quello di Cattelan su sfondo a pois alla Lichtenstein (presente con un’opera piccina anche in questa sala); l’impronta di Klein guarda quella a foglia d’oro spiaccicata su tela dal giovane e impronunciabile artista thailandese. Nello stesso braccio espositivo fotografia padrona della scena, dal nostro Berruti a Maximishin, da Monteleone a Tavakolian. Visita all’ultimo ramo accolti dall’angelo caduto di Basquiat del 1981, che spalanca le ali perdute al volo di aereoplani di inchiostro di Boetti, alla spirale di chiodi di Uecker e ai vortici corposi di Shiroga. Accanto a Basquiat, la figurazione violenta e struggente di Dumas, Huan, Clemente e Dinh Q.Lé.
Il coltello di John Baldessarri ci indica le scale, il Bacio bianco e nero di Warhol ci accompagna alla risalita. Ritorno in superficie. Scala con installazione “di una pace in frantumi scritta nel cielo” di Hashimoto, parafrasandone il titolo della composizione precaria. Scorrono gli anni ottanta, novanta e duemila tra lunghe finestre a nastro che mirano i terreni circostanti. L’epopea illustrativa street pop fumetto, dal faccione di Haring su lamiera ai puppets contemporanei. Ritorno alle scarpe. Via verso il Parco delle Sculture dove sfilano i lavori di Plensa, Ruscha, Rondinone, Denant, Hein, Friedman. 15 ettari concepiti dall’architetto paesaggista Louis Benech, un percorso sinuoso studiato in modo da diluire progressivamente la presenza umana man mano che ci si avvicina alle opere. Immersi tra ulivi, cipressi, eucalipti, lecci, cisti e lentischi. Al di là della siepe, i lunghissimi filari di vite. Qui e ora, la soffice trama profumata degli aghi di pino marittimo sul sentiero. Siamo fuori. 200 passi ancora, e poi il mare.
Tutte le informazioni: http://www.fondationcarmignac.com/en