L’arte contemporanea è il buco con la mente intorno. Spesso è solo il buco, come nel caso dell’opera “esposta”, per così dire, al museo Serralves di Oporto, davvero una buca profonda 2,5 metri dipita di nero, perché sappiate miei signori che Kapoor, quasi fosse un Klein qualsiasi, ha perfino registrato un colore, di cui è unico proprietario, il blackest black, ovvero il nero più nero, che assorbe il 96,96% della luce… e dunque Kapoor scava in un museo una buca nera nera, dentro la quale ci si può pure cadere dentro, per dire cosa e chissà del mondo non si sa.
Un tempo l’arte si contraddistingueva per la mimesis, cioè per la capacità mimetica di rappresentare e riprodurre il reale al meglio possibile, oggi a quanto pare non c’è distinguo tra la cosa e la realtà, se voglio simboleggiare una buca la scavo: dal cesso di Duchamp in poi non possiamo più separare l’oggetto dall’opera d’arte, anzi qualsiasi vile oggetto può diventare arte, compreso un orinatoio, a maggior ragione una buca, se firmata da Kapoor.
Mi viene in mente la battuta di Schlesinger, il regista del Maratoneta, quando chiese, mentre stava per iniziare a girare una scena, dove fosse il protagonista Dustin Hoffman: “sta correndo intorno al palazzo per immedisimarsi” gli riposero, al che lui di rimando “non bastava che recitasse?”. Ecco, appunto non bastava che Kapoor dipingesse la buca?