Fine settimana da sballo a Milano quello appena trascorso, vernissage, convegni, cortei. Tutto olisticamente connesso, come a profilare un volto hollywoodiano della città, Mailandwood!
I vertici dell’amministrazione comunale e quelli della Triennale fanno sistema e creano un network internazionale, un poco strabico, ma di alto profilo. Pare di stare agli awards del political correctness. Si è srotolato lungo le vie della città un ideale lungo red carpet sul quale hanno sfilato tutti i tic e le contraddizioni della californian way of life, dal multiculturalismo in salsa anticapitalistica barricadiera, passando per la fissa LGTB, all’applicazione pazzoide delle più sofisticate tecnodiavolerie piegate all’ideologia.
E’ spettato alla XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano con BROKEN NATURE: DESIGN TAKES ON HUMAN SURVIVAL, curata da Paola Antonelli, Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design e Direttrice del Dipartimento di Ricerca e Sviluppo del MOMA di N.Y, l’onere e l’onore di aprire le danze.
Un ambizioso e complesso progetto sorretto da prestigiosi contributi, una sorta di crasi tra l’Expo e la Biennale di Venezia, teso a ridefinire i legami che uniscono gli uomini all’ambiente naturale attraverso la figura del designer etico come mediatore cognitivo e del design come strumento riparativo.
Sul banco degli imputati c’è, ça va sans dire, l’homo occidentalis, possibilmente bianco, predatore e distruttore oltre che dell’environment tutto, di terra, di aria e di mare e dei suoi stessi fratelli in quanto minoranze linguistiche, religiose, etniche, culturali. Che detta così, insomma, uno ci resta anche un po’ male, è vero, in fondo c’è del marcio in Danimarca, qualche casino, questa nostra cultura occidentale che ha plasmato il mondo, lo ha combinato. Qualcosa da farsi perdonare ce l’ha pure, però… però sentite questa: “Anche a chi crede che la specie umana si estinguerà in un futuro (Prossimo? Remoto?), il design offre gli strumenti per progettare una fine più elegante, (sic!), ci può aiutare a far sì che la prossima specie dominante ci ricordi con rispetto, come esseri dignitosi, responsabili e intelligenti.”
Ecco, questo il mood – e il Mahmood – che esala da tutto il progetto espositivo, anche negli aspetti più affascinanti ed ecologicamente convincenti e allarmanti. È il desiderio e l’amore per la prossima specie dominante, qualsiasi essa sia, che impressiona, se non altro chi scrive. Il rigetto per il genere umano, almeno per quella parte di esso che ha contribuito a renderlo quale è oggi, è radicale. Un sentimento, questo, di cui vi avevo già parlato in occasione della mostra di Tomàs Saraceno a Parigi.
Infine, last but not least, alcune teorie economiche ecosostenibili di decrescita felice fondate sul baratto, e di economia circolare, promosse in alternativa al modello capitalistico di sviluppo fin ad oggi generalmente perseguito, lasciano intravedere una qualche consentaneità tra queste avanguardie tecno-ecologiche e, per esempio, le scombiccherate visioni pentastellate. Se così fosse reggetevi, ci sarà da ballare! Accanto a questi progetti fortemente ideologizzati ne convivono alcuni delicatamente poetici. Il designer Sputniko (Hiromi Ozaki) in collaborazione con lo stilista Masaya Kushino hanno dato vita al progetto Nanohana (colza in giapponese) in seguito alla scoperta che la pianta di colza assorbe le sostanze radioattive dal terreno. Hanno creato così calzature i cui tacchi meccanici seminano colza ad ogni passo, immaginando che i fiori potessero facilitare la rinascita delle terre contaminate.
Infine, in cauda venenum, se tutte queste teorie circa il global warming e l’eventuale fattore antropico non fossero poi così acclarate, o perlomeno così determinanti, ma piuttosto fondate su un pregiudizio ideologico? Non sarebbe la prima volta che un preconcetto assurge a dogma. Ovviamente non ho certo le competenze per dirimere una questione così complessa e non vorrei essere annoverato come un tipo da scie chimiche, però ci sono autorevoli ricercatori, non degli scappati di casa, che lo pensano. Do you remember Al Gore e le sue teorie sul riscaldamento globale che ne fecero il portavoce universale della causa ambientalista, paladino della green economy contro i combustibili fossili, acclamato dagli svalvolati di Hollywood ed infine Premio Nobel per la Pace? bene, era tutto una balla o, se preferite, una fake news come pure Al è stato costretto ad ammettere. Infatti dal global warming siamo passati al climate change.
L’altra tappa, proseguendo l’olistico itinerario rallegrato dalla marcia dei migliori in favore dell’accoglienza e bla bla bla, è stata in via Palestro per la Performing Pac: tre giorni di full immersion ad esplorare identità di genere, culturale, politica e sociale, attraverso incontri, video, performance. Tutto il meglio cuccuzzaro dell’engagement artistoide, ideologicamente agguerrito, fortemente motivato e culturalmente preparato. Il tutto ha un sapore di déjà vu e déjà entendu. Per fortuna questi non sparano, almeno per ora.
Ecco il volto della New Mailand, sarà vera gloria? Lo scopriremo solo vivendo…
Ecologici saluti
L.d.R.