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Oltre l’umana follia: Julian Charrière in mostra a Bologna

Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo
Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo
Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo

Fino all’8 Settembre, presso il MAMbo, sarà visitabile la mostra All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere dell’artista svizzero Julian Charrière, curata da Lorenzo Balbi. Un’immersione in luoghi e oggetti di una natura geneticamente modificata: territori di sperimentazioni nucleari e follia umana.

Un’eredità atomica, un’eredità da guerra fredda stretta tra l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall e Semipalatinsk in Kazakistan. Luoghi che hanno visto avverarsi l’utopia dell’annientamento, luoghi di sperimentazione nucleare, di modificazioni genetiche. Julian Charrière, classe 1987, fa parte della prima generazione, o una delle prime, che guarda a quel Novecento scomparso (in parte), a quella bipartizione geopolitica appesa ad una paura atomica, ad una paura luccicante, assordante. Charrière possiede quella breve, ma necessaria, distanza storica che gli consente di studiare reperti di una civiltà da poco scomparsa, le costruzioni di cemento armato, le navi affondate negli oceani, i frutti radioattivi.

Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo
Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo

Nel video che apre la mostra, l’atollo di Bikini occupa lo spazio dello schermo, l’intera stanza. 23 esplosioni atomiche, poco più di settant’anni fa: la camera si immerge nell’oceano cercando relitti naufragati, esplosi, carcasse di navi che la natura ha cercato di silenziare in un abbraccio soffocante. Lentamente riemerge, i piani si mescolano in un montaggio che alterna acqua, alberi, foglie, nuvole e sole. Una luce bruciante, il sole (esplosione?) che sale, come una pigra minaccia. Alba e tramonto segnano una temporalità in cui l’uomo non esiste, perché non può esistere. Charrière mette in scena una geografia del paradosso, luoghi di cui rimangono brandelli in cemento armato, luoghi resi inaccessibili all’uomo. Ed è questa sensazione di annientamento che traduce l’eredità atomica, quel momento storico che sembra non finire mai. Un annientamento che è sospensione, spazi deserti, ampi, terre disabitate, c’è solo il riflesso della paura e della minaccia: un’arma da esercitazione, che blocca la storia, che paralizza. Quelli ritratti e filmati da Charrière sono spazi di prova, spazi di avvisaglia, immagini di stallo. L’atomica non si usa (quasi mai), ma si testa: non è un’arma offensiva, è un esercizio di nervi.

Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo
Julian Charrière, We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MANbo

Lentamente i reperti si fanno oggetti, noci di cocco mutate geneticamente rinvenuto nelle isole Marshall (Lost at Sea – Pikini-Fragment) e altre ricoperte di piombo, quasi a custudire le conseguenze dell’esplosione. Una preoccupazione atomica che perseguita tutta la mostra, che sgretola la proiezione di ogni mondo possibile: un’installazione “composta da mappamondi sospesi, privati delle informazioni geografiche. Usando mappamondi prodotti tra il 1890 e il 2011, l’artista ha grattato via i diversi confini geopolitici succedutisi nel tempo tramite una speciale carta abrasiva autoprodotta, creata con campioni di minerali provenienti da tutti i paesi riconosciuti dalle Nazioni Unite”. Non è solo il sintomo di una globalizzazione che rende inutili i confini, ma anche di quello stallo, di quel tempo che non è tempo, di quelle terre che la natura rigenera, dove l’uomo non può più mettere piede. Uno spazio unico compreso tra Bikini e Semipalatinsk, senza barriere. Una separazione geopolitica che unisce, un ossimoro, una provocazione atomica che cancella i confini. Come se la globalizzazione si fosse avverata in un’archeologia esplosa, un’archeologia diffusa che rende simili pezzi trovati a miglia di chilometri distanza. Una pangea nucleare: un suono “radioattivo” che percorre le stanze della mostra.

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