Impressioni a caldo da Frieze Masters 2019, sorella “storica” della “contemporanea” Frieze, alla sua ottava edizione. 140 gallerie da tutto il mondo -raccolte nella maxi tensostruttura bianca in Regent’s Park, fermata metro Camden- presentano il meglio dell’antico e moderno in circolazione, dall’archeologia al Novecento. Dal 3 al 6 ottobre 2019.
Tregua azzurro gelida post due giorni di pioggia quasi incessante. Si aprono le porte ad invito (collezionisti e professionisti, oggi la stampa, da venerdì a domenica pubblico) della doppia mega tensostruttura in Regent’s Park. Al via Frieze e la sorella “storica” Frieze Masters. Prime foglie ocra gialle accartocciate che spirano sotto le suole, luce tersa che taglia i tigli rifrangendosi sulle fontane a cascata a lato del vialone che accompagna il peregrinare tra i padiglioni nel parco, dallo storico al contemporaneo e viceversa. Noi partiamo da Frieze Masters, quindi antico e moderno.
Un Mamma mia (citato nel titolo) ambivalente: in primis per la consacrazione dell’Italia a trecentosessanta gradi nell’olimpo della fiera londinese (collezionisti, professionisti, artisti, opere e progetti presentati dalla gallerie italiane, nessuna esclusa, sono di assoluta qualità e curatela). In secondo per l’inadeguatezza di molti stand, esposti a bazar, poca cura e pezzi visti e rivisti, riproposti da tutte le parti, da Brafa a Tefaf, oramai una noiosa consuetudine di ogni rassegna. Una fiera nel complesso sottotono, insolitamente insipida, che vive e vegeta benissimo grazie ai picchi di assoluto degli stand di casa nostra (o comunque di italiani in terra straniera). Saranno le proteste di Hong Kong, la guerra commerciale degli Stati Uniti di Trump a Europa e Cina, il Regno Unito in piena crisi “esistenziale”. Su Londra si ripercuote il brancolare instabile e imprevedibile del mondo. La città vibra incertezza, tra un parlamento di primati, vedi un calzante Banksy (tecnicamente osceno, simbolicamente perfetto) in asta stasera da Sotheby’s in profumo di record (si parla di una cifra attorno ai 9 milioni di sterline), all’ovvietà che non si fa che ripetere a macchinetta: non comprendere le ripercussioni economiche della Brexit. Così i galleristi non osano e i pezzi forti latitano, seppure restando una piacevolissima fiera. Da quando è nata di sicuro una delle migliori su scala globale.
Senza patetici campanilismi quindi, Frieze Masters parla italiano e le gallerie nostrane rappresentano ad oggi la punta di diamante. Da Moretti in stand con Hauser (progetto da favola con Rome, Milan and Fabio Mauri 1948-68) agli astrali Celestial Bodies di Mazzoleni; dagli anni milanesi di Fontana da Tega al folle Fluxus di Cardi, dallo scalone di Fontana in glazed ceramica di Robilant+Voena all’ultimo e meraviglioso Botticelli di Trinity da 32 milioni di dollari (pezzo più costoso mai presentato a Frieze Masters), dalla pittura-scultura onnicoprente di Bertrand Lavier in solo show da Massimo de Carlo ai tronfi busti di Bacarelli/Botticelli su sfondo Buren di Continua, dalle Piazza d’Italia di Paolini da Artiaco alle combustioni sospese di Burri e gli arazzi di Boetti da Tornabuoni o all’assemblaggio totalizzante di Louise Nevelson da Giò Marconi; così via, fino alle chicche di Repetto e Minini nella sezione Spotlight.
Si veda focus con foto di seguito
Ovviamente non c’è solo Italia per quanto Fontana e Burri rimbalzino sovente da uno stand all’altro. Impossibile non citare il Lee Krasner, Moontide del 1961, da 10 milioni di dollari da Kasmin; i Mirò in masonite (1936) da Nahmad da 2,5 milioni ciascuno, il Kandinsky (in bilanciamento) sempre da Nahmad, i Twombly di Gagosian, la totale Lyberal Asbtraction post war di Dickinson, il mega Mathieu di Perrotin/Nahmad da oltre 4 metri del 1960, i Barnett Newman da Craig Star, il taglio cinematografico di Fischl da Skarstedt, il tris di Auerbach da Eykin Maclean, Ad Reinhardt del 1948 da Barbara Mathes; il trittico Larry Rivers, Kossoff e Paula Rego nello stand total figurativo di Marlbourogh, il raro Nitsch di densa cera rosso sangue di Wienerroither & Kohlbacher e lo Shiraga del 1961 da Axel Vervoordt. Sugli Old Master, Mathias Stom da van Haeften, van Honthorst da Salomon Lilian e Bartolomeo Manfredi da Sarti. Reparto archeologia, assolutamente da non mancare gli stand atemporali di Ariadne e ArtAncient (con un Timeline da sogno) e le Influences classico-picassiane da Chenel che dialogano in uno stand superbo, tra archeologia e ceramica novecentesca. Chicca otto-novecentesca invece quel Leggendo a lume di candela di Carl Holsoe da van der Meij.
Gli highlights delle migliori opere in fiera (tra cui quelle appena menzionate) nel prossimo articolo
Vendite ce ne sono state, ma l’atmosfera del primo giorno come sempre qui accade è tiepida. Frieze Masters è una fiera “lenta”, è una rassegna colta che va studiata, assaporata. Le vendite non sono schizofreniche come per la gemella Frieze, dove il grosso si fa nelle prime compulsive ore e poi si tira la domenica. Qua si viene, si guarda, si riflette, si torna. Quindi aspettiamo a sentenziare.
Da non mancare a Frieze Masters 2019
L’ultimo Botticelli. 32 milioni di dollari per l’ultimo Botticelli in mano private disponibile sul mercato internazionale. Un solo capolavoro assoluto per lo stand di Trinity Fine Art: il ritratto di Michele Marullo realizzato da Botticelli, punto di incontro di due grandi personaggi sullo sfondo della Firenze rinascimentale. Una storia di politica, bellezza, poesia, guerra.
Before After. Frieze Masters si presenta catapultando il visitatore all’interno della finestra temporale dello stand di Hauser & Wirth in collaborazione con Fabrizio Moretti. Una ricerca-studio, corredata da un progetto allestitivo di altissimo livello e un catalogo curatissimo, che ruota attorno alla figura di Fabio Mauri, un Virgilio che accompagna il fruitore sull’asse Milano-Roma, 1948-1968. Un ventennio artisticamente d’oro.
Il primo passo sulla Luna immersi nello spazio cosmico celestiale di Mazzoleni. Avvolti in un blu astrale, brillano e si librano opere di Burri, Calder, Fontana, Castellani, Alviani, Melotti, Turcato…
Tutto e solo Cy Twombly da Gagosian. Dopo il solo show del 2018 di Man Ray un altro booth d’autore, che spazia dalle prime opere monocrome di marca spagnola alla deflagrazione arancio floreale dei primi anni Duemila.
65 oggetti per 4 miliardi e mezzo di anni. Bellissimo lo stand corridoio semicircolare di ArtAncient che ripercorre in un Timeline espositivo la storia della terra, dai fossili agli idoli etruschi. All’esterno, un’iscrizione romana dedicata a un legionario in Britannia si erge a monito incastonata nella parete.
Fontana e Milano, a Londra, da Tega. Una spaziale parete nel silenzio del bianco: Burri, Castellani, Fontana, Morandi; tandem d’autore firmati Pomodoro-Morandi e Fontana-Melotti.
Crescendo di Fontana in ceramica sullo scenografico scalone di Robilant+Voena. Stand che gravita sulla Ballerina del 1952 (in foto). Sala interna da scoprire, con Boldini, Bonnard, Schifano…
Influences, il dialogo tra Picasso e la classicità. Archeologia e ceramica picassiana nel fecondo e serrato confronto magistralmente concepito da Chenel.
Conciliare il crocifisso di legno policromo cinquecentesco di Giovan Angelo del Maino con l’Obstruct Disrupt di Kiki Smith del 1995. Continua e Bacarelli&Botticelli insieme per uno stand dove busti settecenteschi fluttuano tra le pareti rosa-bianche di Buren riflettendosi in Pistoletto.
Kandinsky fluttuante in bilico e in Bilanciamento, come recita il titolo, sbattuto in faccia al visitatore nello stand. Superbo. A destra, si aprono le scogliere di Monet e una Marie-Therese di Picasso, a sinistra ci si inoltra, oltrepassando una Plastica combustionata di Burri del 1961, negli splendidi Mirò “serie masonite” del 1936, realizzati pochi anni dopo aver “ucciso la pittura”.
Un parallelepipedo densamente rosso, tracotante pittura, a centro stand. La pittura che si fa marcatamente scultura, oggetti d’uso comune rivestiti di pasta pittorica cristallizzati nel tempo, siano una macchina fotografica, un frigorifero, uno specchio. Massimo De Carlo presenta una sintesi-selezione della parabola di Bertrand Lavier, nome storico della galleria milanese, dal 1980 al 1998.
Saturazione onirica. Gli assemblaggi monumentali di Louise Nevelson colmano gli spazi di Giò Marconi.
Corrispondenze. Colnaghi/Ben Brown
Kossoff + Auerbach + Hockney, da Eyckin Maclean
Super solo show di Gina Pane da Kamel Mennour
2 Commenti
Questo articolo è pessimo. La parte in cui l’autore si spreca in commenti su Londra e su come la feccia del mondo si ripercuota su di essa è ridicola. Per non parlare della parte in cui si inneggia all’Italia come unica nota positiva di una fiera che espone lavori provenienti da tutto il mondo, ma come può una roba del genere essere vera? Da mani nei capelli, davvero.
Questo articolo è pessimo. La parte in cui l’autore si spreca in commenti su Londra e su come la feccia del mondo si ripercuota su di essa è ridicola. Per non parlare della parte in cui si inneggia all’Italia come unica nota positiva di una fiera che espone lavori provenienti da tutto il mondo, ma come può una roba del genere essere vera? Da mani nei capelli, davvero.
Questo articolo è ridicolo, davvero.
Questo articolo è ridicolo, davvero.