Curatore della quarta edizione della prestigiosa rassegna, Lapierre illustra i punti fondamentali delle mostre da lui volute e svela il suo punto di vista sulla scena portoghese.
Come definirebbe il ruolo e l’influenza del Portogallo in architettura, in prospettiva globale?
Paradossalmente, sono allo stesso tempo forti e limitati. Forte perché il genio di Siza brilla ancora sulla scena nazionale così come e all’estero. Il suo eccezionale talento gli ha permesso di porre il Portogallo in prima fila nella lista de pochi Paesi che negli ultimi decenni hanno offerto qualcosa di molto speciale e importante al mondo, nel campo dell’architettura. Come protagonista del “regionalismo critico”, ma anche in se stesso, per la qualità del suo lavoro – la sua recente torre di New York è probabilmente il miglior progetto realizzato negli ultimi anni da uno studio europeo a Manhattan. Tuttavia, il ruolo e l’influenza del Portogallo nel contemporaneo a livello globale sono anche limitati perché, come tutti i geni, Siza ha bruciato il terreno che restava dopo di lui: il suo universo è molto specifico e non facilmente utilizzabile da altri, e la generazione che lo segue sembra essere soggetta a questa pressione, come ad esempio la generazione che seguì Le Corbusier in Francia. Quindi, adesso l’architettura portoghese si esporta all’estero forse più che mai, ma tutte quelle forme astratte, bianche, ancora frequentate dalla generazione successiva a Siza adesso “odorano di muffa”. È solo di recente, negli ultimi anni, che è apparsa una nuova generazione in grado di iniziare a rinnovare l’architettura portoghese su basi diverse, offrendole insieme una nuova visibilità all’estero, nonostante sia stata messa a dura prova dalla crisi economica. Diogo Lopes, il mio predecessore come curatore capo della Triennale, per esempio, apparteneva a questa generazione, così come Diogo Aguiar, il cui lavoro è esposto nella mia mostra Economy of means, o Fala e molti altri che sono sempre più visti e noti dall’estero.
“La bellezza salverà il mondo”, scrisse Dostoevskij. Sembra che attraverso la mostra Natural Beauty, questa Triennale dia la giusta importanza a questo fondamentale concetto. Un ritorno alla purezza della forma, dopo gli eccessi delle varie archistar, i cui scopi erano quelli di stupire, anziché creare una relazione profonda fra luoghi e persone?
Non penso che le archistar non si occupino di bellezza. Non sono tutti uguali fra loro: Rem Koolhaas, nella Casa da Musica progettata per la città di Porto ha offerto un grande esempio di bellezza contemporanea. Le nostre mostre non si schierano in favore della purezza della forma; non abbiamo nulla a che fare con il minimalismo che è, il più delle volte, un nuovo tipo di kitsch. Sosteniamo invece l’estetica della forma in se stessa, che non deve essere un qualcosa di arbitrario, ma qualcosa che sia l’espressione esteriore di necessità interiori. Come possiamo usare quelle istanze per creare bellezza, confrontandole con le nostre necessità? Come possiamo trasformare le nostre ossessioni personali in valori universali collettivi? In altre parole, com’è che l’arte diventa universale? Pensiamo che l’economia dei mezzi sia la condizione necessaria per raggiungere un tale obiettivo che è al centro dell’architettura come disciplina.
Quanto è forte la relazione fra la Triennale e la sostenibilità?
“Economy of means” è ovviamente un modo di definire la genealogia ma anche il presente di un’architettura che è sostenibile prima di tutto perché crea bellezza e significato con pochi mezzi. E anche un modo per mostrare come questa filosofia sia sempre stata l’essenza di ogni buona architettura attraverso i secoli. Vorrei inoltre ricordare come la scarsità di risorse sia un cambiamento di paradigma che l’architettura deve cogliere come un’opportunità, per ripensare se stessa e i suoi concetti fondamentali.
Crede che, in linea generale, l’architettura abbia un ruolo attivo nell’aiutare la società a costruire nuovi modelli di vita, attraverso nuove soluzioni per vivere le città, ad esempio creando spazi Verdi, spazi per la vita sociale, eccetera?
Non credo che l’architettura possa risolvere gran parte dei problemi della società, ma può aiutare ad attenuarne alcuni. L’architettura non può costruire nuovi modelli di vita da zero; può invece stimolare e un po’ anche guidare il loro percorso di formazione e creazione, se tali modelli dovessero veramente apparire.
Quale tipo di messaggio vorrebbe lasciare al pubblico che visita la sua Triennale?
Che la razionalità in fondo non è noiosa come può sembrare, ma è invece “glamour”, libera, aperta, una condizione di bellezza e di convivenza.