Quasi duemila anni dopo i frammenti del cervello di un essere umano, miracolosamente vetrificato dallo shock termico che non gli ha lasciato scampo, sono ancora lì, nella stanza del Collegio degli Augustali di Ercolano, una associazione religiosa deputata a promuovere il culto dell’imperatore, sepolto dalla nube densa di ceneri e lapilli rotolata dai fianchi del Vesuvio.
Il cadavere è completamente carbonizzato. La morte è stata tremenda e istantanea. Probabilmente era il custode del Collegio e stava dormendo. Ed era rimasto solo lui nell’edificio ormai svuotato, sdraiato supino sul letto, nella sua stanza in fondo, a destra del sacello, con il cranio esploso. Ma sul corpo carbonizzato duemila anni fa sono stati rinvenuti questi resti di materiale cerebrale diventati come vetro. La sensazionale scoperta è stata fatta dall’antropologo Pier Paolo Petrone, del Laboratorio di Osteobiologia umana e Antropologia Forense del Dipartimento dell’Università Federico II di Napoli.
E’ la prima volta in assoluto che ci troviamo di fronte a un cervello conservato in questo modo a causa di una eruzione vulcanica. Il processo fisico di vetrificazione è un indizio importante che aiuta a capire che cosa è avvenuto in quei momenti, perché è l’effetto, come spiega il professore, «di una esposizione molto breve ad alta temperatura, compresa tra i 370 e i 520 gradi»: l’estremo calore radiante, ha scritto in un articolo sul New England Journal of Medicine, «è stato in grado di incendiare il grasso corporeo e vaporizzare i tessuti molli». Il rapido calo della temperatura che ne è seguito avrebbe poi vetrificato i resti del materiale cereberale.
L’eruzione del Vesuvio che travolse Pompei ed Ercolano è avvenuta nel 79 dopo Cristo. In una lettera di Plinio il Giovane a Tacito viene indicata come possibile data quella di «nove giorni prima delle Calende di settembre», che corrisponde al 24 agosto. Ma alcuni storici fanno invece riferimento al 24 ottobre dello stesso anno, anche perchè fra i resti è stata trovata una moneta coniata dopo il mese di agosto. Intorno all’una del pomeriggio, la tragedia fu annunciata da un boato terribile. Le sostanze eruttate per prime furono fondamentalmente pomici, quindi rocce vulcaniche originate da un magma pieno di gas e raffreddato. Migliaia di corpi restarono seppelliti mentre tentavano disperatamente di mettersi in salvo, di correre via da quell’onda di lava che distrusse la più bella e lussuosa città romana, piena di splendide ville, opere d’arte, mosaici e botteghe.
Ercolano non fu investita nella prima fase, ma dodici ore dopo (per questo il cadavere del custode è stato ritrovato sul letto mentre dormiva), tanto che prima delle recenti scoperte degli Anni 80, quando gli scavi nell’area dell’antica spiaggia portarono inaspettatamente alla luce, all’interno dei ricoveri per le imbarcazioni, circa 300 scheletri umani, si era pensato che tutti gli abitanti fossero riusciti a mettersi in salvo. La natura del fenomeno qui fu molto diversa, perché una gigantesca valanga di materiali eruttivi prese a collassare, e, sospinta dal vento, questa infernale mistura di gas roventi, ceneri e vapore acqueo investì la cittadina. Secondo Plinio il Giovane, l’altezza di queste nubi ardenti e velenose raggiunse persino i 26 chilometri. Chi si trovava all’aperto venne vaporizzato all’istante. Quelli che invece erano al riparo dentro le mura di casa andarono incontro a una morte ancora più terribile, anche se ugualmente rapida. In pochi secondi l’aria diventò un altoforno e il povero custode fece appena in tempo a rendersene conto prima che il suo cranio esplodesse.
Il professor Petrone ha spiegato a Repubblica come sia avvenuta la sua scoperta: «Mi sono accorto che qualcosa brillava nella cenere, tra i resti del cranio esploso. Erano frammenti vitrei di colore nero, come ossidiana, ma molto friabili. Abbiamo subito prelevato alcuni campioni e l’analisi proteomica ha evidenziato acidi grassi, trigliceridi e capelli umani. Non poteva essere altro che il cervello».
Assieme alla sua équipe, ha provveduto a mandare i risultati al New England Journal of Medicine, la prestigiosa rivista americana, leader a livello mondiale, che ha voluto però alcuni approfondimenti per verificare la notizia senza possibilità di errori. «Abbiamo fatto altre analisi e abbiamo trovato sette proteine altamente rappresentate nel tessuto del cervello umano». Gli studi antropologici e le ricerche sul territorio hanno già portato a risultati eccezionali, fornendo importanti informazioni sullo stato di salute e sugli stili di vita delle vittime. L’altezza media era di circa 1 metro e 60 per gli uomini e 1,50 per le donne, ed erano generalmente sani, anche se qualcuno soffriva di artrosi ed ernie. Un’alta percentuale degli scheletri ritrovati mostra segni di un duro e stressante lavoro. La loro dieta era di cereali e legumi, arricchita da un certo numero di elementi base, come uva, fichi, mele, miglio, uova, patelle, vongole e ricci di mare. Facevano grande uso di frutta, visto che ne sono state trovate tracce di almeno cento tipi diversi. Per insaporire i pasti usavano pepe nero, aneto, finocchio, coriandolo, sedano, menta, papavero e lino. Ma siamo solo agli inizi della conoscenza di quel mondo lontano. Gli studi di antropologia fisica sono ora supportati da analisi di laboratorio sempre più sofisticate, associate a innovative ricerche sul Dna, che potranno chiarire persino origini e grado di parentela delle vittime. Come se la morte rivelasse molti più segreti della vita.