L’esposizione Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile), esposta a Venezia durante la XXXVI Biennale, è stata chiusa per la partecipazione di Paolo Rosa, ragazzo affetto dalla sindrome di Down. L’opera ha comportato una denuncia (sottrazione d’incapace alla patria potestà) per l’artista Gino de Dominicis, poi assolto. Ma qual è il senso di un’azione tanto controversa?
Nel 1884 la pubblicazione di Flatlandia – racconto fantascientifico che racconta le vicende di un mondo dimensionale – inaugura simbolicamente un’epoca in cui tanto la ricerca scientifica quanto al riflessione filosofica si sono indirizzate verso un ampliamento delle possibilià umane al fine di avvicinarsi ai segreti dell’esistenza. L’autore del libro, il teologo Edwin Abbott Abbott, ha immaginato per la sua storia la vita a due dimensioni di un quadrato improvvisamente sconvolta dalla comparsa di una sfera. Così la terza dimensione sconvolge l’intero complesso di credenze del protagonista e innesca una catena di ragionamenti di eccezionale brillantezza (soprattutto se contestualizzati alla fine del XIX secolo). Quanto la nostra conoscenza del mondo è illusoriamente limitata dalle nostre possibilità di comprenderlo? Cosa si nasconde dietro il velo di arroganza prima del quale crediamo di avere tutti gli strumenti per scoprire i segreti dell’esistenza? Questo, insieme ad innumerevoli altre suggestioni, il messaggio chiave dell’opera: c’è la possibilità, nemmeno così remota, che il nostro impianto conoscitivo sia limitato, che esistano dimensioni, che esistano sistemi sensoriali, di cui non riusciamo nemmeno ad intuire la complessità. Da qui la strenua, e comprensibile, necessità di scoprire, aggiungere, aumentare la conoscenza umana al fine di rendere intellegibile la vastità, e la verità, della nostra esistenza.
L’8 giugno 1972, in occasione della XXXVI Biennale di Venezia, Gino De Dominicis opera invece una violenta sterzata nei confronti di questa prospettiva, che potremmo definire “aggiuntiva”, volgendosi al contrario verso una riflessione “sottrattiva”. La filosofia dell’artista di Ancona è ambigua e complessa, giocata su dicotomie ataviche come vita-morte, esistenza-inesistenza, presenza-assenza, visibile-invisibile; perciò risulta arduo racchiudere la sua poetica in un articolo divulgativo, ma l’opera di cui ci accingiamo a discutere appare particolarmente rappresentativa.
Nella stanza a lui dedicata in Biennale de Dominicis espone tre oggetti sotto il titolo Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile). Sono tre opere già esposte precedentemente: il Cubo invisibile (1967), rappresentato da un quadrato disegnato per terra; la Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968) e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra. Ma l’elemento che amalgama gli altri e dà consistenza all’opera – oltre a scandalizzare e indignare stampa e opinione pubblica, che porterà alla chiusura della stanza – è la presenza di Paolo Rosa, un giovane Down, intento a osservare i tre oggetti seduto su una sedia, di fronte agli spettatori.
Penso che le cose non esistano. Un bicchiere, un uomo, una gallina per esempio, non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, sono soltanto la verifica delle possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina. Perché le cose possano esistere bisognerebbe che fossero eterne, immortali. Solo così cesserebbero di essere unicamente la verifica di certe possibilità e diverrebbero cose esistenti
Gino de Dominicis (Lettera sull’immortalità del corpo, 1969)
L’atteggiamento di de Dominicis nei confronti della realtà è fortemente svilente e nichilista (Penso che le cose non esistono), svaluta a tal punto l’universo sensibile da consideralo inesistente. L’artista è convinto che lo stato dell’essere legato allo scorrere progressivo del tempo – il quale si lega alla prospettiva “aggiuntiva di cui sopra – non sia adeguato a parlare delle cose del mondo perché incapace di leggere il suo codice linguistico originario: l’immortalità. L’immortalità è la condizione necessaria affinché le cose cessino si essere mere verifiche di possibilità e inizino ad esistere realmente, ma tale condizione eterna non si può realizzare all’interno del nostro sistema ricettivo, mentale, mnemonico, culturale. La nostra forma mentis è interamente assuefatta dalla concezione di presente, passato e futuro, dall’idea di nascita, vita e morte da non essere in grado di pensare ad una condizione di immortalità. Di conseguenza, dal momento che solo l’eterno è esistente, senza l’idea di immortalità non possiamo giungere alla definizione di esistenza. La verità necessità dunque della rinuncia al precario, al caduco, al transitorio, all’umano, e richiede lo sforzo trascendente di pensare fuori da noi stessi.
Il ruolo, tutt’altro che denigrante, di Paolo Rosa, detto el Pinin, andava proprio in questo verso: invitare lo spettatore ad immedesimarsi nel suo punto di vista, nel suo modo di pensare e soprattutto di percepire il tempo; perché, nell’ottica dell’opera, Paolo Rosa sarebbe al di là dalla coscienza del tempo come successione di passato, presente e futuro, immerso in un istante eterno mentre guarda il pubblico che guarda lui. Anche le opere esposte, che lui osserva, partecipano a questo generale stato di immobilità istantanea ed eterna prima del movimento. Il Cubo invisibile consiste nell’estrema regressione della forma: se in Flatlandia il protagonista si trova a scoprire prima la terza dimensione, per immergersi poi nell’ipotesi di una quarta, quinta, ecc, de Dominicis si muove nella direzione opposta, provando a eliminare ogni dimensione dando vita ad un’opera inconsistente alla vista e al tatto. Se il cubo azzera la dimensione spaziale, la palla di gomma si occupa invece di cristallizzare il tempo nell’istante che separa la caduta dal rimbalzo, rendendo il movimento-non movimento eterno. Allo stesso modo la pietra sintetizza l’auspicio impossibile che qualcosa di immobile prenda vita, sottolineando le analogie tra assenza di movimento e immortalità.
In questo contesto la funzione di Paolo Rosa è stato quello di sublimare la possibilità di concepire una realtà totalmente differente, slegata da qualsiasi appiglio sensibile e volta ad immergersi in una dimensione quasi impossibile anche da immaginare. Bloccati nella nostra condizione umana (sintetizzabile in tre dimensione, quattro considerando il tempo, e cinque sensi) appare arduo pensare di rinunciarci tanto quanto pensare di poterla superare. Come giustificare però il nichilismo insito nel lavoro di de Dominicis? Forse la sua riflessione può essere contestualizzata nel clima culturale degli anni ’70, fortemente influenzato dalla definitiva perdita di fiducia nell’idea di progresso, e vista dunque come un’iperbole concettuale volta a liberare l’uomo dall’ossessione della linearità, della superstizione del nuovo, in favore di un momento in continuo ritorno, eternamente presente, puramente immortale.