Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?
L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.
I tempi di Cleo Fariselli
Come passi la giornata, dove e come lavori? A cosa stai lavorando?
Il mio studio è in casa ma ci passo poco tempo, sto lavorando più con la testa che con le mani. Penso in grande e faccio in piccolo, studio, scrivo, disegno, ascolto. L’attesa è una fase della mia creatività: è come una molla che si comprime e, quando arriva il momento, rilascia la sua energia generando una trasformazione. A volte i tempi di compressione sono brevi, altre lunghi, ma è una dinamica ricorrente nel mio ciclo espressivo, una sorta di stagionalità. Il caso ha voluto che questa mia fase introspettiva sia coincisa con la quarantena. Un tempo di attesa e compressione collettiva che sta accumulando un potenziale energetico enorme in tutti noi.
Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…
Trascorro la maggior parte del mio tempo in sala, la stanza più luminosa della casa, e in balcone. Mi accorgo di seguire i movimenti del sole. Avere meno interazioni con il mondo esterno mi porta a modulare la giornata su dei ritmi più vicini alla (mia) natura. Dedico rinnovata attenzione all’alimentazione, ai miei cari (persone, animali, vegetali, ambienti, oggetti) al mio corpo. Si può dire che la cura, nel senso più ampio del termine, abbia assunto per me un ruolo centrale. Il silenzio all’inizio era irreale, talmente elettrico di paura, dolore, incertezza, che mi sentivo quasi in colpa a goderne. Con il passare dei giorni, che lo volessi o no, ha agito su di me come un balsamo, distendendomi i nervi, e aiutandomi a lavare via i pensieri in eccesso. Potrei dire la stessa cosa per la solitudine. I primi giorni mi sono dimenata in rete, alla ricerca spasmodica di contenuti, aggiornamenti, scambi, notizie. Quando ho allentato la presa ho avvertito una crescente sensazione di sollievo, accompagnata dalla certezza che non ero io ad avere bisogno di quei contenuti, ma semmai il contrario.
Leggere, scrivere, riflettere.
In questo periodo mi sono confrontata anche con il mio ruolo di artista: da un lato, dall’inizio dell’emergenza, ho ricevuto numerose richieste di contributi artistici – una prova emblematica, direi, che anche nel momento del bisogno l’arte si conferma una risorsa importante nella vita della collettività (è stato detto, e sottoscrivo: come sarebbero state le nostre quarantene senza i libri, il cinema, le arti visive, la musica?). Dall’altra parte, però, mi sono sentita inesistente sul fronte del riconoscimento da parte delle istituzioni. Parlo di contributi statali, ma non solo: in Italia c’è un vero e proprio vuoto legale per quanto riguarda le professioni dell’arte, che si riflette in condizioni pratiche di totale instabilità. Tutti sappiamo che rispondere “l’artista” alla domanda “che lavoro fai?” è vista quasi come una provocazione da una grande fetta di popolazione. Il mito romantico dell’artista incompreso e outsider è un’aura che personalmente mi risparmierei volentieri a favore di diritti e dignità lavorativa. Non sono l’unica: per un’ampia fascia di lavoratori delle arti, dello spettacolo e della cultura l’emergenza Covid ha incarnato la proverbiale “ultima goccia” di una situazione già insostenibile, dando vita a una serie di dialoghi, incontri e mobilitazioni (per ora ovviamente virtuali) che tutti ci auguriamo possano evolvere positivamente, portando alla luce le nostre istanze.
Prima cosa che farai quando finisce quarantena?
Andrò a trovare i miei genitori.