I musei non sono separati dal loro contesto sociale, dalle strutture di potere e dalle lotte delle loro comunità. I musei hanno la responsabilità e il dovere di combattere il razzismo a tutti i livelli. Dietro ogni museo ci sono persone.
“Museums are not neutral”. I musei non sono (e non dovranno mai essere) neutrali. Con questa affermazione, l’International Council of Museums (ICOM), la principale organizzazione internazionale a rappresentare musei e professionisti del settore, prende una posizione netta ed inequivocabile nei confronti dei recenti fatti di Minneapolis, e non solo.
“L’insensata morte di George Floyd” ha riacceso una fiamma che neanche l’estenuante persistenza della pandemia globale -con dure misure restrittive e drammatiche conseguenze sociali ed economiche a seguito- ha potuto in alcun modo mitigare. Un uomo è stato ucciso e un video ha irrevocabilmente reso l’intera popolazione mondiale testimone oculare del fatto. È stato girato con un cellulare, oggetto che negli ultimi mesi ha rappresentato l’unica possibilità di comunicazione e contatto con l’insidioso mondo esterno. E proprio un cellulare ha spinto migliaia di persone ad abbandonare l’ormai consumato divano di casa propria per riversarsi, di nuovo, in strada, unite dall’ineludibile richiamo dell’ingiustizia.
“Silence is violence” gridano i manifestanti in ogni parte del mondo. Il museo nasce ed esiste per le persone, è portavoce e testimone delle loro urgenze. Mai potrà farsi portavoce di un silenzio, o nascondersi dietro un apparentemente confortevole ed inattaccabile qualunquismo sociale. Quello del “no comment”, degli hashtag commemorativi fini a se stessi, quello della scelta della “terra di mezzo”. Un museo che non prende posizione si stacca dal suo sostrato sociale e scioglie irrimediabilmente l’intricato tessuto di relazioni e storie che lo rendono vivo. I professionisti che lavorano per e nel museo sono le stesse persone che il giorno dopo difendono in piazza i propri diritti. Ignorare questo significa attribuire al museo il ruolo di mero contenitore.
Lo scorso 18 maggio, migliaia di musei in tutto il mondo si sono uniti per celebrare l’International Museum Day 2020, sotto il tema di “Museums for Equality: Diversity and Inclusion”.
A sostegno delle proteste contro razzismo, violenza e abusi di potere, Lonnie G. Bunch, segretario dello Smithsonian Institution e presidente di ICOM USA, ha rilasciato una significativa dichiarazione, nella quale, citando Frederick Douglass, afferma: “coloro che professano di favorire la libertà e tuttavia deprecano l’agitazione, sono persone che vogliono coltivare senza arare il terreno… la lotta può essere morale, o può essere fisica, o può essere entrambe le cose. Ma deve essere una lotta”.
Obiettivo di questa “lotta” non deve però essere la negazione, l’annientamento fine a se stesso. Il vero atto rivoluzionario risiede nell’intero, spesso tortuoso percorso di consolidamento di un cambiamento propositivo e costruttivo. In questo senso la capacità del museo di ripensarsi e reinventarsi, di far fronte ad esigenze nuove e circostanze imprevedibili, diventa requisito fondamentale.
Mai come negli ultimi mesi questa necessità si è palesata ai nostri occhi, in tutta la sua drammatica attualità. La pandemia ha ricordato a musei ed istituzioni culturali quanto capacità di adattamento e “selezione naturale” agiscano ancora oggi, in riferimento a contesti ovviamente diversi, contemporanei. In questo momento storico è indispensabile riflettere sulla natura dell’istituzione museale, sulla sua funzione civica e pubblica, sul ruolo che il museo riveste per le città.
L’Italia offre alcuni significativi esempi di risposta reale e interessata alle esigenze, mutate anche (e soprattutto) in seguito ai recenti sconvolgimenti economici e sociali, che hanno completamente ridisegnato il contesto di riferimento delle comunità. Importante il lavoro di Lorenzo Balbi, dal 2017 direttore del MAMbo – Museo di arte moderna di Bologna, il cui impegno è stato da subito improntato alla promozione di un nuovo modello di museo. Lo testimonia la nascita del Nuovo Forno del Pane, progetto attraverso il quale il MAMbo vuole ridefinire “la propria azione ed il proprio ruolo”, e rispondere al diffuso desiderio di ripartire.
E ancora, l’esperienza del MACRO – Museo di arte contemporanea di Roma, diretto da Luca Lo Pinto. Il museo si propone come veicolo di un’arte che sia capace di agire sulla società. In particolare, lavorando sulle idee e sulle risorse intangibili, Lo Pinto vuole rendere omaggio all’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva istituito a Roma da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca nel 1973, con l’obiettivo di porre l’immaginazione al centro del dispositivo museale.
In virtù della sua funzione e dei valori perseguiti, l’ICOM, con la sua dichiarazione, rivendica a gran voce il ruolo del museo, ribadendo la sua essenzialità all’interno della società e dei dibattiti che la scuotono. Il museo è (o si presume che sia) luogo aperto, inclusivo, formativo, veicolo di sensibilizzazione estetica, ma soprattutto di conoscenza. Non è mai separato dal contesto sociale in cui nasce ed in cui adempie alla sua funzione, né può assistere da spettatore agli sconvolgimenti, di varia natura, che ne ridefiniscono gli assetti.
Tantomeno può permettersi di prendere le distanze dalle lotte sostenute dalla comunità che lo anima. Quella per cui il museo stesso esiste.