“Dal mio punto di vista, sono sempre stato abituato a fotografare storie e persone lontane da me. Questa volta è stato diverso perché ero parte della stessa cosa”. Durante l’emergenza sanitaria, il fotografo trevisano Matteo de Mayda ha raccontato storie sparse tra il Veneto e il Friuli, pubblicando i suoi scatti su testate nazionali e internazionali.
Il caso di Vo’ Euganeo, il confine italo-sloveno, un laboratorio gestito da migranti e attivisti che si è convertito per produrre mascherine a Treviso. E ancora, una scuola a Pordenone o gli abitanti di Venezia. Durante le diverse fasi della pandemia, il fotografo Matteo de Mayda, nato a Treviso nel 1984, ha documentato l’emergenza nei “dintorni” di casa sua, raccogliendo storie che restituiscono uno spettro di situazioni viste e vissute all’interno di un momento storico straordinario. Tra tutti spicca il suo reportage a Vo’ Euganeo, uno dei due primi focolai di coronavirus in Italia, diventato caso di studio internazionale. Rappresentato da Contrasto, de Mayda ha pubblicato da poco il suo primo libro, Era mare, che racconta l’alta marea a Venezia nell’autunno del 2019. Focalizzato su progetti sociali e ambientali, il fotografo trevisano ha la capacità di posare uno sguardo delicato e imparziale su vicende e persone, nutrendosi di colori tenui, tagli essenziali e un’estetica pulita e minimale. Osservatore attento, con eleganza e discrezione riesce ad andare dritto al cuore di ciò che fotografa. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui per capire com’è stata la sua esperienza durante questo periodo, che cosa ha visto, come si è sentito.
Ciao Matteo. Tra le varie vicende che hai seguito in questo periodo c’è il caso di Vo’, che hai documentato in diversi momenti. Com’è stato addentrarsi in una piccola realtà sotto i riflettori del mondo intero ed entrare in relazione con i suoi abitanti?
Il 21 Febbraio è mancato Adriano Trevisan, 78 anni, primo morto per Coronavirus in Italia e in Europa. Il 22 Febbraio Vo’ è diventata “zona rossa” insieme a Codogno e Lodi: non si poteva più uscire né entrare. Mi sono interessato a questa storia circa una settimana più tardi, quando il dottor Crisanti, padre del “modello veneto” e professore di Microbiologia all’Università di Padova, ha coordinato i test a tampone su tutti gli abitanti del comune. Ciò che in quell’occasione mi ha colpito maggiormente è stata la partecipazione di massa da parte della comunità: il 95% degli abitanti ha aderito all’esperimento. Un’indagine così approfondita su un’intera popolazione non è stata fatta nemmeno in Cina. Ho dato inizio alla mia ricerca contattando l’Università di Padova e congiuntamente il sindaco di Vo’ Giuliano Martini, per approfondire e soprattutto avere il loro permesso a fotografare.
La disponibilità da parte di tutti è stata inaspettata, la mediazione da parte delle istituzioni ha facilitato molto il mio lavoro con il personale sanitario e i cittadini. Da quel momento ho iniziato a fotografare le attività essenziali rimaste aperte durante il lockdown, come il supermercato, le Poste, i corrieri, la farmacia, etc. In seguito mi sono dedicato al personale sanitario e ai successivi screening fino a una settimana fa, quando sono andato a fotografare la macchina che analizza 9.000 tamponi al giorno (tra cui il mio, negativo). Proprio il sindaco Martini mi ha raccontato che se inizialmente il virus colonizzava ogni discussione, rendendo ancora più opprimente il clima, con il passare dei giorni sono subentrate forme di adattamento e di solidarietà. La condivisione di una situazione inedita ed estrema ha avvicinato le persone: “Si è creato un bel senso di cooperazione”. Grazie a questo grande impegno collettivo sono state salvate decine di vite.
Oltre a Vo’, in che modo ti sei approcciato alle diverse situazioni, e in particolare alle persone che hai fotografato?
Da parte delle persone che ho incontrato ho riscontrato voglia di condividere la propria storia: ognuno era testimone e, a suo modo, stava resistendo ad una situazione mai vista prima. Dal mio punto di vista, sono sempre stato abituato a fotografare storie e persone lontane da me. Questa volta è stato diverso perché ero parte della stessa cosa. Oltre al dialetto, condivido con loro timori e confusione che hanno caratterizzato questo periodo.
Qual è la cosa più forte che hai visto con i tuoi occhi? Penso a un momento particolare, qualcosa che ti è rimasto impresso più del resto.
Il giorno in cui la Slovenia ha chiuso il confine con l’Italia per proteggersi dal Coronavirus sono andato a fotografare le barriere disposte lungo il confine italo-sloveno. Nella piazza principale di Gorizia avevano messo una recinzione proprio dove c’era il “Muro di Gorizia” tra Italia e Jugoslavia. Lì ho trovato le prime famiglie separate dalla nuova barriera e, anche se oggi la chiusura dei confini sembra normale, in quel momento mi sembrava assurda. È stato un momento duro per me, al pari del corteo di camion militari che trasportavano le salme da Bergamo.
Dietro al fotografo, che svolge il suo lavoro, c’è l’essere umano. Che valore ha per te personalmente documentare questo momento storico?
Sono stato molto confuso alla fine di febbraio, avevo perso diversi lavori e mi sono improvvisamente trovato con molte settimane vuote davanti a me. Mi sono chiesto cosa avrei dovuto fotografare e soprattutto: devo per forza fotografare qualcosa? Non era così scontato. Non sono un fotografo di guerra e mi sento fortunato ad aver avuto l’opportunità di raccontare storie con un risvolto positivo. Mi sarei trovato in difficoltà a trovarmi per esempio a Bergamo durante questo periodo. Non dico che non avrei fotografato, ma sarebbe stato più complesso.
Il tuo linguaggio visivo è pulito ed essenziale. Ci sono delle regole formali a cui cerchi di attenerti?
Non sono forte con singole immagini spettacolari, nel senso che non amo spettacolarizzare quello che fotografo. Mi sento più a mio agio con un linguaggio sobrio (magari noioso) che racconti un’intera storia nella sua complessità.
* La tomba di Adriano Trevisan, 78 anni, la prima vittima europea del Covid-19 | © Matteo de Mayda (Contrasto)