Daniel Buren presenta le sue nuove opere realizzate in fibra ottica, un materiale intessuto di luce. A ospitarle il Palazzo della Ragione di Bergamo, città che accoglie la mostra come simbolo di ripartenza. In esposizione fino all’1 novembre, la mostra è curata dal direttore della GAMeC Lorenzo Giusti.
Mi hanno detto che Daniel Buren scava nel concetto. Affonda nella verità geometrica del mondo e ne estrae il riassunto visivo, un tessuto di luce su cui iscrivere la sua visione della forma. Allora la Sala della Capriate del Palazzo della Ragione di Bergamo deve abbandonare la sua storica austerità per lasciare luce alle opere dell’artista francese, pendenti dal soffitto come risultati analitici di un’indagine sulla percezione più pura. Sono sostanza, forse criptica, ma pur sempre ragionata, del complesso architettonico e pittorico che li avvolge.
Affreschi delicati e travi imponenti giacciono cromaticamente prosciugati dai teli realizzati in fibra ottica, speciale materiale che affianca alla trovata tecnologica un esoterico potere accentrante. Se le orecchie vengono zittite dalla sacralità del luogo, gli occhi soccombono al richiamo delle opere disposte in modo concentrico, assembrante, potremmo addirittura dire sfidando le circostanze che ci riportano al periodo vissuto dalla città lombarda in questa pandemica primavera.
Non a caso sulla facciata del Palazzo spicca la scritta “Bergamo si tesse di luce“. Serve dunque scavare nel concetto, come Buren è riuscito a fare con l’arte, per comprendere il significato simbolico di questa esposizione. La ripartenza di Bergamo svetta nel linguaggio muto ma allo stesso eloquente del concilio di opere allestito dall’artista, in grado di interpretare le specificità del luogo nonostante l’impossibilità di visitarlo (se non tramite soluzioni virtuali). Riflessione e speranza si uniscono allora in questa sorta di tempio in cui la Sala delle Capriate si è trasformata. L’invito è a operare sulla realtà, spesso drammatica, nello stesso modo in cui le opere di Buren abitano la sala: libere da cornici e vincoli, colme dell’essenza che dall’ambiente hanno tratto. Solo così si può venire a capo di un’esposizione che, paradossalmente, nel suo donarsi nell’immediata generosità di un’unica grande sala riesce a nascondere il suo valore nelle intuizioni meno attese.
Lo stesso Lorenzo Giusti, direttore della GAMeC e curatore della mostra Daniel Buren. Illuminare lo spazio, lavori in situ e situati, racconta di come aver avuto l’idea della mostra casualmente, passeggiando per gli stand di Art Basel. Un’opera di Buren tratteggiata di verde, presentata dalla Galleria Minini, ha attirato la sua intenzione destinandola in un secondo alla storica sala bergamasca e ai suoi affreschi iconici per la città, che nelle loro trame conservano un’analoga tonalità. Da qui l’idea di dialogare con l’artista francese, che dopo aver ideato una serie di nuove opere per lo spazio ha visto il suo significato cambiare all’improvviso. Da coerente e azzeccata prosecuzione di un sentiero contemporaneo già solcato da Gary Khuen e Jenny Holzer, la mostra dedicata a Buren è diventata per la città simbolo di rinascita. Volontariamente o involontariamente, l’esposizione deve prestare il fianco alla poetica della ripartenza e non si sottrae dal farlo.
Così le opere in situ di Buren non solo mostrano, codificandoli in un sistema geometrico, gli attributi estetici e strutturali della sala, ma si fanno carico del tono emotivo dell’ambiente che li ospita. Silenzio, riflessione, pulsione. Pulsione a essere messi in discussione: variati nei dettagli (alcune opere divergono per la disposizione delle linee che ne solcano lo sfondo monocromo) o nella sostanza (talvolta l’energia delle righe, nel telo successivo, sovrasta lo sfondo guadagnandosi lo scettro cromatico), i manifesti artistici di Buren affondano in una simbologia che non credevano di assumere.
Se Daniel Buren è stato il primo a cavalcare la tendenza all’interrogazione critica delle istituzioni artistiche emersa alla fine degli anni Sessanta del Novecento, potrà perdonarci se ci viene spontaneo spingersi al di là delle premesse e – nel buio della sala situata nel cuore di Bergamo alta – leggere tra le sue opere ignare un sicuro messaggio: il peggio è passato.