Da Kublai Khan a Coleridge, da Borges a Orson Welles: il mito di Xanadu, la reggia della tracotanza, si rinnova attraverso i secoli e i generi artistici. A legare tutte le opere troviamo uno strano sogno, che ricorre come una misteriosa profezia.
“No trespassing” è l’ammonimento che Orson Welles inserisce nell’elegia gotica che apre Quarto Potere. Due parole che racchiudono l’ambizione umana di superare, ammiccando alla tracotanza, la propria invalicabile natura. Come evocati da questo cartello, fascino e mistero salgono nella scura e nebbiosa atmosfera insieme alla telecamera, la quale si ferma sui cancelli serrati attraverso cui si intravedono le meraviglie decadute della reggia di Kublai Khan. Si, esatto, Kublai Khan. Charles Foster Kane (attenzione al rimando), protagonista non presente della storica pellicola di Welles, è un moderno e audace violatore di confini, sprezzante profanatore di leggi eterne, proprio come lo è stato l’indomabile condottiero mongolo.
Una serie di dissolvenze suggeriscono allora la struttura magnificente del castello, indugiando sui vasti spazi adiacenti, ricchi di decadenti meraviglie. La visione allucinata si conclude con la mente e la vita di Kane che vanno in frantumi insieme alla piccola palla di vetro, la quale gli scivola dalle mani ormai prive di vita, adagiate come il resto del corpo sul letto di morte.
Xanadu è il castello di evanescenti bellezze e sicurezze fragili, vertiginoso componimento esistenziale di una vita estrema, di un’esistenza che l’estremo l’ha anche superato, schiantandosi e perdendosi in un attimo di inconsolabile inconsistenza. Xanadu è la reggia che Kane condivide con Kublai Khan, il re mongolo di Samuel Taylor Coleridge: il sovrano di quel piccolo poemetto frutto – così vuole la leggenda – di una visione onirica, donata al poeta in piccole stille dall’oppio. Kane e Khan, due uomini forti e dalla loro forza ottenebrati, che hanno ottenuto tutto per scoprire infine che non era nulla. “In Xanadu did Kublai Khan a stately pleasure-dome decree”, oltre ad essere l’incipit del Kublai Khan, è la battuta che apre il film e l’esplicitazione di quel debito d’ispirazione che Orson Welles deve a Coleridge. Non solo l’incipit, non solo Xanadu, ma l’intera narrazione è in effetti ispirata – tanto nel contenuto, quanto nella forma – al poema inglese.
È in un agitato sonno estivo del 1797 che Coleridge racconta di aver ricevuto, come in dono, i versi che compongono il racconto dell’ascesa e caduta del conquistatore. Un audace guerriero realmente esistito e diverse volte raccontato, la cui smania di potenza l’ha portato, tra le altre imprese, a erigere un imperioso palazzo. Curioso come l’epica attorno al personaggio storico vuole che a sua volta, l’idea e la struttura della reggia di Xanadu, guarda caso, sia giunta al sovrano tramite un sogno.
In questo ponte onirico tra il vero Kublai Khan e la sua trasposizione poetica, si inserisce allora un terzo polo che è quello cinematografico.
Come Coleridge afferma di aver salvato dal sogno nient’altro che pochi versi, alcuni frammenti dell’intero poema, così Welles del protagonista, Kane, non ci lascia altro che incompleti tasselli della sua esistenza. Quarto Potere è un racconto visivo e corale, in cui la figura di Foster Kane è solo suggerita; la sua ricostruzione è affidata allo spettatore, costretto a barcamenarsi tra le testimonianze di chi ha conosciuto in vita l’uomo la cui traiettoria esistenziale appare nebulosa e intrigante. La morte iniziale del protagonista getta l’osservatore nel dubbio, lo costringe ad affidarsi ai racconti personali e faziosi di chi, inoltre, potrebbe mentire. “In teoria quella dovrebbe essere la risposta, ma in fin dei conti forse è così e forse no” ci dice ad un certo punto Welles, rendendo ancora più complicato il puzzle.
Lo stesso poema di Coleridge è pregno di mistero e incertezze, un tumultuoso viaggio tra immagini spettacolari e visioni amene, il cui rovescio è però tragico e funesto. Xanadu è l’ultima opera del re mongolo, la più grande e probante, che lo porterà “per caverne che l’uomo non può misurare”. E proprio quando il suo palazzo incantato, il suo mondo favoloso sembrava aver preso vita consacrando l’uomo a dio, tutto svanisce in un istante.
Kublai Khan, come Citizen Kane, oltrepassa quel limite invalicabile, quello che l’uomo non dovrebbe superare. Entrambi confinano nei regni della natura e del divino, della smania di possedere e comandare, guidati dall’insano desiderio di porsi al di sopra di qualsiasi uomo e di ogni sua legge o buonsenso. Khan espande il proprio ego con guerre e conquiste, mentre Kane è un conquistatore moderno, un imprenditore che allarga le sue attività senza badare al suo spirito. O banalmente, si fa per dire, agli affetti più sinceri.
Nella loro rincorsa affannata alla ricchezza e alla gloria dimenticano per strada ciò che realmente nutre la vita, finiscono per costruire un meraviglioso contenitore, Xanadu, senza contenuto.
“Giungeva a caverne che l’uomo non può misurare, poi sfociava in tumulto a un oceano senza vita”. In questo ossimoro si conclude la vita di questi personaggi nati dal sogno e da un sogno illusi. Se in fin di vita al Kublai Khan rimane una consolazione “Perché con rugiada di miele fu nutrito – e bevve latte di paradiso”, Kane manderà in frantumi anche quella sfera di cristallo che, insieme alla neve e a una casetta, contiene ciò che di più puro aveva perduto, abbandonando così anche la propria capacità di vivere: la sua infanzia.
Riassumendo abbiamo quindi un sovrano mongolo che nel XII secolo sogna un palazzo e ne ordisce un’edificazione fedele alla sua visione. Cinquecento anni dopo, ormai nel XVIII, un poeta inglese ignaro del precedente sogno si ritrova anch’esso coinvolto in una dettatura onirica. Dal primo sogno è nato un palazzo, ormai scomparso; dal secondo un poema che ne dà immagine eterna, con parole paradossalmente più forti e durature dei marmi, ma in ogni caso incompleta. Singolare la connessione fra questi due sogni, che si sono mossi per secoli e continenti fino a far visita a due persone molto differenti, ma sussurrando loro il medesimo suggerimento: Xanadu.
Forse non è nient’altro che una coincidenza, forse Coleridge sapeva del sogno di Kubla Khan e ha scolpito una matrioska per moltiplicare il riverbero della sua intuizione. Ma Jorge Luis Borges – facendo fede alle fantasie e alle finzioni di cui ci ha dato più di un assaggio con le sue opere – sostiene che
La somiglianza dei sogni lascia intravedere un piano; il periodo enorme rivela un esecutore sovrumano. Indagare il proposito di codesto essere immortale o longevo sarebbe, forse, non meno arrischiato che inutile, ma è lecito sospettare che egli non l’abbia portato a termine. Nel 1691, il Gerbillon, della Compagnia di Gesù, accertò che del palazzo di Kublai Khan non restavano che rovine; del poema sappiamo che si salvarono soltanto cinquanta versi. Tali fatti permettono di immaginare che la serie dei sogni e delle costruzioni non abbia toccato il suo fine
Intrapreso il percorso sovrannaturale possiamo allora farci prendere la mano e ipotizzare (o sognare) che Orson Welles non sapesse né del sogno di Kublai Khan né di quello di Coleridge e che lui sia stato dunque il terzo destinatario di questa fantasia; e che dopo una restituzione reale e una poetica, sia toccato a lui dare immagine cinematografica a quel sintomo del gigantismo dell’ego che è Xanadu.
D’accordo, Welles aveva di certo letto Coleridge, ma forse il sogno l’ha aiutato a trovare giusta collocazione ai frammenti forniti dal poeta inglese e a ridargli vita in un’opera del tutto nuova. Nuova, ma, chissà, non ancora completa: “Se lo schema non viene meno, un lettore di Kubla Khan sognerà, una notte dalla quale ci separano i secoli, un marmo o una musica. Quell’uomo non saprà che altri due sognarono; forse la serie dei sogni non ha fine, forse la chiave sta nell’ultimo”
Magari il tempo, i secoli come lo schema di Borges lascia intendere, ci racconterà di un nuovo sogno che coglierà in una notte qualsiasi un uomo non qualsiasi, aggiungendo una scheggia a quel messaggio in frantumi che chissà quale entità sta cercando di inviarci.
Quanto all’ipotesi fantasiosa (e per questo fantastica) che Orson Welles possa essere il nostro uomo, il tempo non gioca a nostro favore: a separarlo da Coleridge c’è appena un secolo circa; troppo poco, dunque, se ci affidiamo alla scansione temporale individuata da Borges. Rimane però a consolarci il fatto che Welles, un uomo qualsiasi, di certo non lo è stato e che con lui Xanadu ha trovato l’ennesima (ma speriamo non definitiva) consacrazione.