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“Lo capisco anche io”. La sfera infinita dell’arte e le infinite variabili della bellezza

Io non so nulla di arte. Davvero, non è falsa modestia: non sono affatto un esperto, anzi si può dire che di arte non ci capisco un’acca. Non so neanche cosa sia, l’arte. E d’altro canto, chi è che lo sa, con precisione? Chi potrebbe definire l’arte? All’arte si adatta perfettamente quello che Sant’Agostino diceva del tempo: se nessuno me lo chiede, so che cos’è; se dovessi spiegare a chi me lo chiede, non lo so più. È arte una venere paleolitica, o è solo religione? È arte un pisciatoio rovesciato, o è solo provocazione? È più arte quella di Manzoni o quella di Manzoni? L’arte è nell’occhio di chi guarda, o nella mano di chi crea? Questioni spinose, e annose (e anche un po’ noiose). Dare una risposta non è impossibile: è inutile. Ma soprattutto non chiedetela a me: ve l’ho detto che non sono un esperto. Bene, ma allora che ci stai a fare qui? Ve lo dico subito.

L’arte mi appassiona, mi interroga – come tutte le cose che non capisco, proprio perché non le capisco – mi riguarda. Soprattutto l’arte astratta, le avanguardie, il contemporaneo, il concettuale, il performativo, l’immersivo: quelle cose cioè che stanno sul confine, forse proprio perché sono opere ibride, più da pensare che da guardare. E mi stupisce che siano quelli ignoranti come me ad avversare certa arte, a dire “lo potevo fare anch’io” invece di “lo capisco anche io”, parla di me.

Se l’arte ha un confine, una border line, è però una frontiera porosa, permeabile, è una linea mobile, elastica. L’arte può fagocitare qualsiasi cosa del mondo, anche la più refrattaria; e qualsiasi cosa al mondo può invadere il campo dell’arte. In queste righe, in questa rubrica che si chiama appunto Art Border Line, arrivo come un outsider, come un esule, come un alieno: mando dispacci dall’altro lato del confine.

Maradona (getty)
Maradona (getty)

In questi giorni, gli ultimi di un anno spietato, il mondo sta piangendo la scomparsa di un grande artista. Un genio, dotato di tecnica straordinaria e inventiva sublime. Un personaggio controverso e contestato, dalla vita piena di errori ed eccessi, sopraffazione e autodistruzione, come Caravaggio, come De André, come Burroughs. Un reietto che si è riscattato, uno degli ultimi che è diventato primo. Un capopopolo, un simbolo, un mito. Diego Armando Maradona.

Il giudizio sull’uomo lo lascio ai moralisti (ma leggetevi questo articolo delle femministe argentine https://www.dinamopress.it/news/perche-amiamo-cosi-tanto-diego-femministe/). Quello sul campione ai tifosi (che a volte sono capaci di tirare fuori storie oscure e dimenticate https://www.ilnapolista.it/2020/11/ferlaino-kapadia-e-il-desiderio-di-abbellire-la-storia-tra-napoli-e-maradona/?fbclid=IwAR3c2kXTKzMn8vCgx-TxahWc540ilzcYfgQharHh8f0ZlmuO2dhfPFprw0Q). Io non riesco a smettere di pensare a due cose: la qualità sovrannaturale del suo tocco, e la sua devozione alla bellezza.

Ha notato un mio amico – juventino, e quindi non sospettabile di avere gli occhi foderati di prosciutto, come si dice a Buenos Aires – che la cosa incredibile di Maradona, la cosa che lo rende diverso anche dal più grande e supertecnico dei campioni, è che mentre gli altri fanno delle cose imprevedibili e pazzesche, ma comprensibili, appartenenti al regno del possibile, Maradona sembra sovvertire le leggi della fisica. Non fa quello che vuole con il pallone: fa fare al pallone quello che vuole lui. È come se il pallone nei suoi piedi mutasse di continuo sostanza, natura: ora una pezza sgonfia, ora un’astronave orbitante, ora un magnete, ora una lama rotante. E mutasse natura per precisa e telepatica volontà del suo mostruoso cervello, del suo spirito incontenibile che travalica il corpo stesso.

Ma c’è una cosa che rende Maradona ancora più unico, ancora più artista: la sua dedizione, la sua ricerca continua della bellezza. Non in senso estetizzante, autocompiaciuto: Diego in campo non era un dandy, non cercava la raffinatezza in sé. Giocava per vincere, come tutti i grandi. Ma voleva farlo nel modo più bello possibile. Da qualche altra parte ho letto: i difensori avversari non cercavano di fermarlo, cercavano di ucciderlo. È vero. Ricordo benissimo delle foto, dei close up delle sue gambe martirizzate alla fine di certe partite. Eppure lui non l’ha mai presa sul personale, non ha mai fatto un fallo di reazione. Ma non è quello il punto: è che anche quando subiva fallo, se riusciva a mantenere l’equilibrio – e ci riusciva spesso, grazie al baricentro basso – continuava a giocare, a scartare, ad avanzare verso la porta. Magari una punizione gli avrebbe fatto comodo ma lui no, lui innanzitutto non doveva interrompere l’azione, il flow, la bellezza.

Non sono i gol non sono gli assist, non sono i dribbling non sono neanche le cosiddette giocate. È il modo irripetibile in cui toccava la palla in qualsiasi semplice momento. Perciò chi non l’ha visto giocare non può avere un’idea, se non forse riguardando partite e partite nella loro interezza. Perciò chi ha avuto la fortuna di esserci non può dimenticare il boato – pari se non superiore a quello che segue una rete – con cui lo stadio accoglieva il mero arrivo della palla a Maradona: non era incitamento, non era eccitazione anticipata per quello che avrebbe potuto creare; era meraviglia e festa per la produzione istantanea di bellezza, per la visione dell’arte nel suo farsi.

Ancora a proposito di confini. All’arte si potrebbe assegnare il carattere che i 24 filosofi attribuivano alla divinità: è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Una sfera, probabilmente un pallone, che Dio dalla quarta dimensione sta usando per palleggiare con il nostro universo. Aveva ragione Einstein a dire che Dio non gioca a dadi: gioca a calcio.
Marcel Duchamp, Fontana

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