Primitiva, istintiva, popolare, contraffatta, ingenua, brut, arte di bambini o di pazzi: la controversa storia della pittura naïf è racchiusa nel Museo Anatole Jakovsky di Nizza, ricco delle opere che il suo fondatore ha raccolto nel corso della sua attività di critico.
Lo Chateau Sainte Hélène, edificio color rosa salmone nell’elegante quartiere di Fabron, sulle colline di Nizza, si inserisce felicemente nell’architettura di un prato scolpito da pini, palme, aranci, araucarie. La villa, costruita dal fondatore del Casinò di Montecarlo Francois Blanc – e poi comprata dal celebre profumiere Belle Epoque Francois Coty – accoglie dall’82 uno dei più ricchi musei naïf di Francia, nato dall’azione combinata della città (che ha acquistato la dimora) e al fondatore, mecenate e critico d’arte Anatole Jakovsky (1909-1983), che ha donato il nucleo principale della collezione.
Nato a Chişinău (oggi Moldavia), studia architettura a Praga e nel ’32 sbarca in una Parigi straordinariamente ricca di fermenti artistici e curiosità avanguardiste: diventa amico di De Chirico, Delaunay, Duchamp e ammira Mondrian, Mirò, Braque, Picasso. In seguito, all’interesse per l’astratto sostituisce quello per l’arte popolare e naïf, diventandone collezionista e acceso difensore. Con la mostra Maitres populaires de la realité (1937), esposta prima a Zurigo e poi a New York, viene definitivamente legittimata la nuova forma d’arte.
Grazie alla passione e all’impegno del suo fondatore, si può approfondire la storia della pittura naïf in questo splendido e ben documentato Museo, spalmata su circa 700 opere di 27 paesi, dagli anonimi dell’800 ai giorni nostri. Primitiva, istintiva, popolare, contraffatta, ingenua, brut, arte di bambini o di pazzi: la storia della pittura naïf è storia di pregiudizi, di ambiguità già nei termini usati per definirla. “Il linguaggio dei pittori naïf” – scriveva Jakovsky – “è dominato dalla libertà assoluta delle loro pulsioni emozionali, individuali“. Spontanea, immaginifica, libera da regole e canoni codificati, veicolo di emozioni che lasciano libero corso alle emanazioni di una segreta vita interiore, l’arte naïf nasce ufficialmente con l’esposizione al Salon des Indipendents del 1886 e le opere oniriche e concrete di Henry Rousseau, meglio noto come il Doganiere.
A metà strada tra folklore tradizionale e creazione individuale, i naïf si moltiplicarono soprattutto in Russia, Jugoslavia, Polonia, Svizzera, Paesi Bassi, Germania, dove non era raro incontrare pittori girovaghi, che, cavalletto e cassetta dei colori in spalla, andavano per le campagne e in cambio del pasto e di poche lire, dipingevano quadri dai paesaggi familiari, immagini agresti soprattutto, emblematici primi piani di scene arcadiche, idilliache. Uno sguardo ludico – al centro della loro cifra stilistica – e un gusto primitivo del racconto si sommano alla semplificazione iterativa degli elementi decorativi, immettendo una ventata d’aria fresca nel loro vagheggiamento su un’era felice a contatto con paesaggi incontaminati. Quasi una risposta all’esigenza di pace e di tranquillità interiore, al bisogno di riorganizzare la mente su un ordine primigenio non ancora sconvolto dall’uomo. C’è tutto questo nella pittura naïf, ma non solo, nel suo bisogno di attingere da più parti e da nessuna in particolare. Nella sua totale libertà di espressione si nasconde la carica di ambiguità che le permette di sfuggire a qualsiasi tentativo di classificazione semplicistica, rendendola partecipe di tutte e nessuna fra le correnti di pittura suffragate da canoni, codici, programmi.
Surrealismo misticheggiante e idillio naturalistico sono gli elementi che più si ritrovano nelle opere degli italiani, largamente rappresentati nel Museo di Nizza: Capri, 1964 di Ugo Astarita, è un trionfo di tenere cromie rosa, azzurre, gialle, verdi per una natura mediterranea già divenuta astrazione, desiderio di un paesaggio onirico solo suggerito; La Casa nel parco di Bruno Rovesti; Enrico Fereoli per Gualtieri, il regno di Ligabue, si ispira e trasmette il fascino antico dei palazzi carichi di storia della sua Parma; l’idillio naturalistico dei Vaccari di Graziolina Rotunno.
Come non soffermarsi sui grandi jugoslavi, proponendo all’attenzione Le repos di Cimic, opera poetica ed evocatrice di uno spazio atemporale, che ricorda gli effetti stilistici della pittura cinese del ‘200; Le vacher di Ivan Generalic, il più grande dei naïf jugoslavi; Le village sous la neige di Ivan Lackovic, dai sottili richiami all’arte giapponese. Il Fondo del Museo è ricco di opere di Vivancos, Vivin, Seraphine de Senlis, Bauchant, Emilie Blendel, Ève. Si possono ammirare le geometriche strutture architettoniche, lontane suggestioni di viaggi in Italia, del Panteon di Vivin, Vase à la nappe de dentelle di Vivancos, la splendida Servante et la chevre di Bauchant. Ci troviamo ai vertici dell’arte naïf, dove trova posto il Doganiere Rousseau con una piccola tela a lui attribuita Au bord du canal.
Emergono inoltre Grenados di Seraphine de Senlis; la gioia esplosiva, la felicità della gente che si ama ne La noce di Blondel; Le vieux moulin di Jean Eve, opera carica di ambiguità nella strana atmosfera che regna fra la penombra umida di uno stagno incassato, interrotta solo dalla macchia rossa alla finestra. Sono i pittori che il critico parigino Wilhem Hude definì Peintres du Coeur sacré, altrimenti noti come i “maestri popolari della realtà”.