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La storia delle biennali e delle fiere d’arte. Il nuovo libro di Paco Barragan

Stand della galleria Gagosian adArt Basel Stand della galleria Gagosian adArt Basel
Paco Barragán (Courtesy Paul Nescio, Amsterdam)
Paco Barragán (Courtesy Paul Nescio, Amsterdam)

Dalle prime mostre d’arte nella Roma antica, fino alle fiere globali. Fino alla commistione tra mercati internazionali e grandi rassegne artistiche, nel libro di Barragan

Il sottotitolo del nuovo libro del curatore spagnolo Paco Barragan “On the Biennialization of Art Fairs and the Fairization of Biennials”, edito da Artpulse, richiama immediatamente allo scenario incentrato sulla commistione tra mercati globali e grandi rassegne artistiche al quale eravamo ben usi prima della pandemia ma che ora, con la sosta forzata, sta diventando sempre meno ovvio. Quando finirà tutto questo, tutto tornerà come prima? Molti hanno proposto di approfittare di questo interludio di durata ancora indefinita per avviare riflessioni che in tempi normali, quando la ruota gira, non si ha l’interesse a fare. Quello che deve tornare, davvero deve tornare come prima?

Il libro di Barragan, illustrato dai disegni di Pablo Helguera, prospetta una visione critica andando alla radice di quello che forse si o forse no tornerà uguale a sé medesimo. E allarga lo sguardo partendo da molto lontano: come dice il titolo vero e proprio “From Roman Feria to Global Art Fair – From Olympia Festival to Neoliberal Biennial”, gli eventi dei decenni a noi vicini non sono visti solo da un punto di vista critico ma sono valutati da un punto di vista storico, e in questa ottica – sostiene Barragan – non tutto quello che è nuovo è così nuovo e non tutto quello che è nuovo occupa tutto l’orizzonte del conoscibile.

 

Stand della galleria Gagosian adArt Basel
Stand della galleria Gagosian adArt Basel

La saggistica sui due fenomeni concomitanti delle Fiere d’Arte e delle Biennali non è così sterminata come si potrebbe pensare e, anche se i buoni lavori non mancano, la complessità dell’argomento spaventerebbe chiunque volesse affrontarlo, dato che come ben tutti sappiamo i centri propulsivi per l’arte contemporanea si sono progressivamente moltiplicati e la scena che ne risulta rispecchia l’allargamento geografico determinato dalla globalizzazione economica. Per quanto la rete di relazioni sia andata estendendosi l’aumento degli attori e delle storie in campo rende gravosa una ricostruzione complessiva che sia davvero obbiettiva. Inevitabilmente ogni libro ritaglia una parte dei discorsi e delle aree geografiche e alla fine non ci resterà che usare le fonti più autorevoli che abbiamo per combinarle come singole tessere di un puzzle necessariamente incompiuto.

ALCUNI TESTI DI RIFERIMENTO

Facendo pochi esempi di libri usciti negli anni scorsi vedremo che lo stesso argomento è trattato infatti con sfumature diverse e in certi casi con rimarchevoli omissioni. Come dice Barragan generalmente gli autori rivolgono il loro interesse alle Biennali e alle grandi mostre ma oltre che a ignorare l’arte che si produce al di fuori di questi circuiti sorvolano pure sulle relazioni esistenti tra queste e i meccanismi di mercato. L’appariscente “Biennal and Beyond – Exhibition That Made Art History – 1962 / 2002” di Bruce Altshuler, edito dalla Phaydon nel 2013, è un bellissimo oggetto ma sceglie di focalizzarsi su 25 grandi mostre emblematiche e su un’introduzione in definitiva succinta che non indaga più di tanto contesti critici, sociologici ed economici. Quello che suona grave è che tra le 25 mostre non viene citata nessuna edizione della Biennale di Venezia.

Il libro di Elena Filipovic, Marieke van Hal e Solveig Øvstebe “The Biennial Reader: An Anthology on Large – Scale Perennial Exhibitions of Contemporary Art”, edito nel 2010 da Hatye Kantz Verlag, è un testo di riferimento per la presenza degli interventi dei diversi importanti curatori internazionali che compongono l’antologia, ma Barragan ci fa notare che alcune informazioni ivi contenute sono discutibili: prima fra tutte l’attribuzione alla Biennale di San Paolo di seconda Biennale al mondo considerato il diritto di primogenitura per quella di Venezia: in realtà tra il 1895 e il 1951 ci sono state altre Biennali o manifestazioni molto simili. Riguardo invece il caso a sé della Biennale dell’Havana, gli stessi critici che ne hanno curato le prime edizioni, non citano un precedente lontano molto interessante, che vedremo, e che però è trascurato o misconosciuto da quasi tutti i libri dedicati alla storia delle Biennali, eccetto appunto questo di Barragan e pochi altri.

 

La copertina del libro
La copertina del libro

Un libro chiaro, esaustivo e scrupoloso anche nella bibliografia è quello di Roberto Pinto “Nuove geografie artistiche – Le mostre al tempo della globalizzazione”, edito da Postmedia nel 2012, e che ha il pregio di una certa sinteticità pur non esimendosi dall’affrontare la parte complessa e problematica delle questioni. Un’ulteriore ottimo testo, informato, intelligente e smaliziato è quello di Charles Green e Anthony Gardner “Biennials, Triennials, and Documenta – The Exhibitions That Created Contemporary Art”, edito da Wiley Blackwell nel 2016, che si addentra in questioni di valutazione con analisi che non hanno atteggiamenti reverenziali.

UNA RICOSTRUZIONE STORICA CHE PARTE DALL’ANTICHITÀ

Il libro di Barragan, rispetto al mainstream della letteratura specialistica, dichiara fin dall’inizio, e come abbiamo visto dal titolo, il suo approccio sociologico e storico alle mostre, più che alle mostre in sé, con l’intenzione di descrivere le circostanze concrete in cui sono nate e gli interessi che le hanno originate e che le governano. Buona parte del volume è dedicata ad un agile excursus sui lontani precedenti storici delle fiere-mercato e delle Biennali, partendo dalle condizioni economiche e sociali che nel mondo classico hanno dato luogo alle Feriae di Roma, o nel Rinascimento alle fiere artigianali come i Pand di Antpwerp o i Kermis dell’età Barocca, le mostre degli Antichi Maestri a Roma e i Salon francesi (compreso il Grand Tour) a partire dal 1600. Ed infine alle grandi Esposizioni Universali dell’800, come quella del Crystal Palace a Londra o quella di pochi anni dopo a Parigi, che precederanno di poco le prime mostre indipendenti degli Impressionisti.

Praticamente tutte queste esposizioni sono mostre mercato a tutti gli effetti. Nel bel mezzo di questa storia uno dei punti di svolta per lo sviluppo di un’economia autonoma del mondo dell’arte fu, lungo il 1500, la condanna protestante delle immagini. Che sloggiando in alcuni paesi le opere d’arte dalle chiese, favorì paradossalmente un mercato delle stesse svincolato dalla committenza religiosa, creando i presupposti di un collezionismo privato, non necessariamente legato alle chiese o alle corti. La stessa celeberrima mostra dell’Armory Show del 1913, quando buona parte delle Avanguardie europee (esclusi i Futuristi italiani per via della Guerra) furono importate negli Stati Uniti, era qualcosa di molto simile ad una Fiera d’arte di oggi, con le opere in vendita e con caratteristiche “internazionali” allora inedite che preannunciavano nettamente “l’arte globale”. Inoltre per la mostra, che si svolse a tappe anche in altre sedi in versioni diverse, era stata prevista una cadenza periodica, come una Biennale, anche se in realtà una seconda edizione non fu mai concretizzata.

Artoon, Courtesy Pablo Helguera, New York
Artoon, Courtesy Pablo Helguera, New York

IL 1968 E LA NASCITA DELLE FIERE D’ARTE MODERNE

Saltando qualche passo e arrivando alle Fiere d’Arte che ancora oggi esistono, nel 1967 nasce Art Cologne e nel 1970 Art Basel. Qualcuno si stupirà venendo a sapere che grandi galleristi come Kahnweiler videro come fumo negli occhi la nascita di queste fiere, ritenendole la volgarizzazione di un mercato esclusivo che sarebbe stato meglio rimanesse tale. Lo stesso Beyeler, correntemente descritto come uno dei fondatori di Art Basel, era scettico ma non poté rifiutarsi alle insistenze degli organizzatori che lo convinsero ad essere tra gli espositori. Barragan, come altri, nota un bel paradosso sottolineando le date: in quel periodo, nel 1968, c’era stata la famosa contestazione di studenti e artisti alla Biennale di Venezia dove si bersagliava la vetustà dell’istituzione ma anche i risvolti mercantili e quindi “capitalistici” dell’esposizione. Fino al 1968 era esistito un ufficio vendite per le opere esposte nella mostra e c’era un mercante incaricato dal 1942. Ettore Gian Ferrari prima del 1968 riscuoteva sul venduto una percentuale per sé (2 %) e una per l’istituzione (15%) che così aveva fondi per organizzare le nuove edizioni della mostra.

Dal 1968 la ventata della contestazione obbliga l’ente a chiudere l’ufficio vendite dell’istituzione pubblica e nello stesso periodo nascono le due importanti Fiere d’Arte di Colonia e Basilea: Barragan nota sardonicamente come le proteste contro la mercificazione dell’arte abbiano involontariamente generato come contraccolpo le fiere commerciali d’arte! Una tabella comparativa ci fornisce poi i motivi per cui tra Colonia e Basilea sia stata quest’ultima fiera a prevalere: fin dall’inizio Basilea si propone come una fiera internazionale (in un paese neutrale dove si erano rifugiati diversi collezionisti ebrei e che difficilmente in quegli anni si sarebbero recati a comprare opere in Germania), con criteri qualitativi di accesso svincolati dall’obbligo di appartenere a qualche associazione nazionale di gallerie e con diversi vantaggi bancari e fiscali, senza dimenticare l’assenza del diritto di seguito.

LE BIENNALI POST – TRAUMATICHE

Se le fiere della seconda metà del novecento confermano un rapporto tra arte e mercato privato che era già esistito nel passato fino all’antichità, le Biennali hanno senz’altro una storia più complessa che si allaccia a fattori geografico – politici oltre che economici. Quelle che Barragan inserisce nella tipologia delle Trauma Biennial ad esempio, sono nate in nazioni che volevano superare periodi tragici della loro storia: il caso più citato è quello della quinquennale Documenta di Kassel, nata in una Germania che voleva riconnettersi con il mondo dopo la seconda guerra mondiale, ma anche la Biennale di Gwangju è nata sul ricordo di un massacro di studenti durante le proteste di piazza e quella di Johannesburg sulla fine dell’apartheid in Sud Africa.

DIRITTI DI PRIMOGENITURA

Come abbiamo accennato spesso le ricostruzioni storiche meno esigenti assegnano la palma di prime Biennali a quella di Venezia e a quella di San Paolo del Brasile ma Barragan, oltre a ricordare la storia degli antecedenti periodici che abbiamo brevemente riassunto elenca una serie di esposizioni che non hanno lo stesso prestigio e notorietà ma che vantano a loro volta una rilevanza storica: la prima edizione di Venezia è del 1895 ma anche se escludessimo l’Armory Show del 1913 a precedere la São Paulo Bienial del 1951 ci sono la While Carnegie International (1896), la Corcoran Biennial (1907) e la Whitney Biennial del 1932.

LA BIENNALE DI SAN PAOLO, ROCKEFELLER, LA GUERRA FREDDA E MARTA TRABA

La parte più sapida del sommario di Barragan riguarda non a caso l’area di lingua ispanica e ci introduce nell’interessantissimo periodo della Guerra Fredda, quando appunto si svolge la prima edizione della Biennale di São Paulo. A quel tempo il mondo latino- americano è una roccaforte dell’arte figurativa derivata dal muralismo messicano rivoluzionario, e gli organizzatori di São Paulo vogliono rivestire la mostra di un’aura di modernità introducendo l’Astrazione Internazionale in Brasile. Ciccillo Matarazzo, industriale, mecenate e politico, desidera sintonizzare il paese dalla parte del sistema economico Neoliberale e chiama a supporto Nelson Rockefeller, presidente del MOMA di New York, che porta risorse e fa donazioni di opere per i musei brasiliani imponendo il gusto modernista.

Queste, quindi, le condizioni per la nascita e lo sviluppo dell’Arte Concreta, che con le opere di Mario Pèdrosa, Max Bill, Carlos Pinto Alves, Antonio Maluf, Roberto Burle Marx , Hèlio Uchôa e Oscar Nyemeier ben si adattava alla retorica della libertà e del progresso, assicurando alla Biennale la distanza da implicazioni politiche, razziali, di genere e di identità. Anche una critica e storica dell’arte influente come l’argentino- colombiana Marta Trab, dopo l’iniziale interesse per la pittura figurativa, si fa affascinare dalle nuove tendenze astratte. Aprendo qui una parentesi accenneremo al fatto che Marta Traba collaborò per un certo periodo con L’OAS, l’organizzazione degli stati americani, nata da una conferenza capitanata dagli Stati Uniti a Bogotà nel 1948 e che univa i paesi membri in un trattato di assistenza reciproca in chiave anticomunista. L’Oas lavorava di concerto con le istituzioni museali statunitensi e faceva da filtro per l’esportazione di artisti sudamericani verso il nord privilegiando ovviamente un‘arte depoliticizzata secondo i canoni formalistici del Modernismo di Alfred H. Barr, per lungo tempo massima autorità del Moma.

 

Marta Traba, critica d'arte e scrittrice argentino - colombiana (1930 —1983)
Marta Traba, critica d’arte e scrittrice argentino – colombiana (1930 —1983)

Il caso di Marta Trava è emblematico di una generazione di intellettuali sudamericani. Dopo qualche tempo rinnegherà queste sue scelte e in Colombia tornerà ad un attivismo politico e alla rivendicazione di un’identità contrapposta all’internazionalismo di matrice nordamericana. Fu espulsa dal proprio paese dopo che nel 1968 i militari occuparono l’università dove insegnava e da qui iniziò un esilio attraverso vari paesi tra i quali figura anche un periodo a Washington, interrotto quando l’amministrazione di Ronald Reagan gli negò il rinnovo del passaporto. Marta Traba muore l’anno dopo, nel 1983, quando l’aereo su cui si trova insieme al suo secondo marito si schianta vicino all’aeroporto. In un colloquio che ho avuto con Paco Barragan, riferendosi a Marta Traba e ai suoi rapporti con l’OAS e il suo maggiore rappresentante in campo artistico, il cubano José Gómez – Sicre, ha detto che lei, tra alti e bassi, è stata una persona che aveva avuto il coraggio di cambiare idea, cosa che non tutti i curatori e critici sanno fare , e aggiungerei io, scegliendo la strada più difficile.

IL CASO DELLA BIENNALE DELL’HAVANA

Chiuse le parentesi e rimanendo nell’area di lingua ispanica, salta agli occhi come in quasi tutti gli studi sulle Biennali quella dell’Havana, la cui prima edizione risale al 1984, occupi un posto a parte e sia ammantata di un’aura quasi leggendaria soprattutto per la terza edizione, quella del 1989. Barragan, concordemente con questa consuetudine gli riconosce, all’interno della sua classificazione dei vari generi di Biennale, lo statuto di Resistance Biennial (insieme alla Dak’Art, all’Asia-Pacific Triennial, alla 28ª edizione della Biennale di São Paulo e alla 7ª biennale di Berlino diretta dall’artista Artur Żmijewski), contrapposto alle Neo-Liberal Biennial (Johannesburg 2, Manifesta, Instanbul Biennale, Documenta 11, Singapore Biennial). In questa classificazione le prime rappresentano un modello di reazione locale, anti – mercato e con basso budget, al modello internazionalista e più ricco delle Biennali sviluppatesi poi dagli anni 90 con il progressivo accentramento di potere in una nomenklatura di curatori transfrontalieri che propugnano un’arte globale piuttosto omogeneizzata e sempre più implicata con un mercato finanziarizzato e neoaristocratico.

La Bienal de la Habana vanta quasi un privilegio di extaterritorialità anticapitalistica essendo Cuba dal 1959 uno stato socialista sotto embargo e per molti nostalgici è una delle ultime postazioni sopravissute delle utopie del ‘900. Barragan, non accondiscendendo ai sentimentalismi, ridimensiona la rilevanza effettiva delle sue prime edizioni, contro chi le esalta come qualcosa da apparentare alle Biennali e alle mostre più consolidate che negli anni 80 cominciavano a trattare i temi della globalizzazione esponendo artisti che non erano più solo legati al mondo occidentale. È vero come dicono i suoi curatori Gerardo Mosquera e Lillian Llanes che questa manifestazione ha subito ostracismi e il silenzio della stampa internazionale e che le prime edizioni sono davvero affascinanti per il contesto in cui sono nate ma le opere, l’organizzazione, l’apparato critico sono penalizzati dalle scarse risorse e il tutto risulta molto naif, e al di là delle agiografie, il confronto con rassegne contemporanee come “Primitivism” al Moma (1984) o “Le Magicien de La Terre” al Pompidou (1989) o altre Biennali è inevitabilmente perdente. Oltretutto la Bienal de la Habana non è nemmeno la prima biennale che si è svolta a Cuba, esistendo un precedente lontano che come avevamo annunciato è trascurato da quasi tutti gli studi: infatti già trent’anni prima, nel 1954, era già stata organizzata una Biennale all’Havana.

 

Fulgencio Batista
Fulgencio Batista

LA PRIMA BIENNALE DELL’HAVANA DI FRANCO E BATISTA E L’ANTI – BIENNALE APPOGGIATA DA PICASSO

Il fatto è lontano e appartiene quasi ad un’altra era dato che al tempo Cuba era sotto la dittatura di Fulgencio Batista, un membro dell’esercito, ladro e corrotto, oltre che amico di gangsters, e che nella sua seconda esperienza di governo, ottenuta tramite un golpe, aveva avuto il riconoscimento degli Stati Uniti. Barragan ricostruisce i fatti che non sono citati nemmeno nel monumentale volume “Post War: Art between The Pacific And The Atlatic 1945 – 1965 “ curato da Okwui Enwezor. Nel 1951 la Spagna del generalissimo Franco è isolata dall’Europa in quanto unico regime fascista sopravvissuto alla seconda guerra mondiale. Dopo la vittoria nella guerra civile Franco pur mantenendo rapporti di simpatia con le potenze dell’Asse, che l’avevano aiutato, aveva mantenuto una posizione di neutralità per quanto riguardava la guerra mondiale e quindi alla fine di questa riuscì a mantenere la Spagna come un’enclave clerico – fascista, nazionalista e anticomunista. La strategia di Franco per ritrovare uno sbocco all’esterno era imperniata su tre versanti: il primo era una politica fondata sulla vicinanza con i paesi ispanici, la seconda un riavvicinamento con il Vaticano ed infine il terzo: una confluenza di interessi politici con gli Stati Uniti. Per tutti gli anni 40 e parte degli anni 50 il paese è relativamente isolato, senonché gli Stati Uniti all’epoca della Guerra Fredda scesero a patti in cambio di una presenza militare strategica nel suo territorio. Nel 1951 la Spagna franchista organizza in grande stile a Madrid la prima Bienal Hispano – Americana (BHA) commemorando l’arrivo di Colombo in America e la nascita di Isabella di Castiglia.

Opera di Gerardo Suter esposta alla III Biennale dell'Havana, 1989
Opera di Gerardo Suter esposta alla III Biennale dell’Havana, 1989

Gli artisti coinvolti (più di 900) con un grande numero di opere provenivano da tutte le regioni della Spagna e per la gran parte dai paesi di lingua ispanica che parteciparono tutti, ufficialmente o meno, escluso l’Uruguay. Inviti onorifici furono fatti anche a Brasile, Portogallo, Filippine, Canada e naturalmente agli Stati Uniti. La mostra fu un enorme successo, con oltre 500.000 visitatori, mentre São Paulo nel 1954 ne raccoglieva 100.000 e la Biennale di Venezia nel 1952 ne contò circa 198.000. Tutti conoscono bene le implicazioni di Salvador Dalì con il regime franchista e la conversione in questo periodo della sua produzione surrealista verso temi di ispirazione cattolico – visionaria, ma secondo Barragan non si è rimarcato altrettanto a sufficienza l’opportunismo dei pittori astratti spagnoli che utilizzarono questo genere di mostre di regime per ottenere vantaggi e visibilità. La stilettata è riservata agli artisti della pittura e della scultura Informale spagnola, e quindi esplicitamente anche ad un mostro sacro come Antoni Tàpies, che in questo caso rivestono lo stesso ruolo che abbiamo visto occupare dagli artisti dell’Arte Concreta alla Biennale di São Paulo, come argine astratto e antidoto all’arte figurativa, temuta sempre come potenzialmente politica. La circolazione negli Stati Uniti di artisti ispanici e latinoamericani sarà massivamente concentrata su correnti non figurative e la stessa Documenta di Kassel nasce nel 1951 con questa impostazione.

Nel 1954 la seconda edizione della Bienal Hispano-Americana si terrà, grazie agli ottimi rapporti tra Franco e Batista all’Havana, organizzata dalla Spagna e in buona parte a spese di Cuba, ma come abbiamo notato gli storici dell’arte contemporanea difficilmente la citano evidentemente pensando che la notorietà di artisti come Tapiès, Saura, Millares, Feito , de Oteiza e Chillida sia dovuta solo ai loro lavori e non alle mostre che li hanno celebrati e supportati. In corrispondenza di questa data dell’Havana abbiamo un altro caso che è poco menzionato: il fiorire delle anti- biennali. Picasso che si dichiarava comunista, che viveva in Francia ed era rigorosamente antifranchista, nello stesso anno era riuscito a rompere l’embargo contro la pittura figurativa ed aveva esposto Guernica alla Biennale di San Paolo, riscuotendo grande impressione. In contrapposizione alla dittatura di Franco e di Batista Picasso fu interpellato da artisti e intellettuali cubani per boicottare la Biennale Hispano-Americana dell’Havana e organizzare delle contro-biennali nei paesi limitrofi.

 

Guernica di Picasso esposta alla Biennale di San Paolo del 1954
Guernica di Picasso esposta alla Biennale di San Paolo del 1954

Uno dei risultati fu l’Anti-Bienal o Exposiciòn Martiana Internacional de Arte dedicata all’eroe nazionale Marti. Anche per trovare tracce di questa mostra bisogna consultare testi molto specialistici. Questo frangente comunque, grazie a tanti personaggi della cultura sudamericana e al ruolo tutt’altro che secondario di Picasso apre la consuetudine di una tradizione alternativa che arricchirà questo continente di esperienze, mostre ed eventi dei quali non si sospetta la complessità. Tra gli esempi citati ricorderò il caso del BAVIC, Bienal de Artes Visuales del Istmo Centroamericano , iniziato nel 1998 e che rappresenta un modello molto interessante e alternativo alle biennali globali contrassegnate dal ruolo autoritario dei curatori internazionali dato che è itinerante, e si raccorda, tramite dei commissari, con mostre e premi esistenti a livello locale in Guatemala, Belice, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica e Panama. Tra note a piè di pagina e riferimenti complessi Barragan avrebbe materiale per scrivere un secondo libro e non è possibile riassumere tutta la posta in gioco: senz’altro ha costruito un congegno a tesi stimolante che obbliga ad approfondire una storia che può essere fatta di diverse alternative e che va studiata avendo presente la stratificazione di eventi che stanno alla base di fatti che per pigrizia riteniamo banali e inevitabili.

LE BIENNALI NELL’ERA DEL NEO- LIBERALISMO

L’ultima parte del libro segue per conclusione logica l’approccio sistematico adottato: le Biennali che si organizzano in giro per il mondo dagli anni 90 in poi sono strettamente intrecciate con il tipo di globalizzazione agevolato dalle politiche economiche neo – liberali. Per non menzionare soltanto i soliti riferimenti ai governi Thatcher e Reagan che contrassegnano il nuovo corso dopo il declino dei movimenti di sinistra degli anni 60 e 70, viene ricordato che uno dei primi esperimenti di applicazione delle idee degli economisti neoliberali ha il suo battesimo ancora in una dittatura sudamericana. Si tratta del Cile del generale Pinochet che dopo il colpo di stato del 1973 si avvalse dei consigli di Milton Friedman per rimediare all’iper – inflazione. La ricetta di Friedman farà scuola, la cosiddetta “Scuola di Chicago”: taglio delle tasse, libertà di commercio, privatizzazione dei servizi, tagli allo stato sociale , “deregulation”. Ma se il battesimo delle ricette neo-liberali inizia tra dittature e provvedimenti economici aggressivi con il tempo assume un’aspetto più complesso e pervasivo: la deregulation del movimento dei capitali oltrepassa le frontiere e sorvola il potere degli stati nazionali togliendo rappresentatività politica.

La cultura non è più solo una sovrastruttura ma diventa un alimentatore del movimento globale: la comunicazione, la mercificazione dell’apparato espositivo dei musei e delle mostre, lo spettacolo, il turismo, gli eventi, la moda diventano parte integrante della circolazione finanziaria globale iperconsumista mentre la rete riesce a monetizzare lo stato di connessione permanente. In corrispondenza di questa trasformazione si sviluppa un accademismo filosofico basato su un’idea di ibridazione generalizzata, di nomadismo, di superamento delle tradizioni locali verso un internazionalismo fusionale. In autori come Appadurai, Spivak o Omy Bhaba si sente forte l’influenza del pensiero francese di Derrida e Foucault, visti come vie di fuga da realtà locali complesse che spesso sono spaccate senza soluzione tra tradizione, emigrazioni e istanze concrete della globalizzazione.

Buona parte delle Biennali e delle mostre internazionali hanno adottato questo passepartout tematico con titoli che si somigliano tutti ed esponendo autori che rientrano nella casistica, essendo si di provenienze culturali differenziate ma quasi tutti residenti e formatisi nelle capitali dell’arte. Il desiderio di generare inclusione dando spazio ad aree del mondo che prima degli anni 80 erano emarginate dal sistema dell’arte occidentale ha portato ad una nuova internazionalizzazione del gusto che non è più di tipo formalista come quello del modernismo ma rischia di rivestire i tratti di un’omologazione variegata. Barragan cita il caso della seconda Biennale di Johannesburg coordinata nel 1997 da Enwezor: la mostra che ha l’ambizione di portare il Sud Africa al centro del dibattito internazionale è una sorta di navicella extraterrestre che non riesce ad avere un contatto reale con la realtà locale essendo una mostra che seleziona gli artisti in base alla loro congruità con gli stili e le forme espressive preponderanti nelle biennali internazionali.

 

Okwui Enwezor (1963 — 2019)
Okwui Enwezor (1963 — 2019)

Gli artisti locali vengono ritenuti poco aggiornati. Ma alla resa dei conti temi convenzionali come il multi- culturalismo, il post- colonialismo e la globalizzazione interessano gli intellettuali diasporici ma hanno poca attinenza con le reali problematiche locali. Nelson Mandela sintomaticamente non partecipa all’inaugurazione e la mostra si chiude in anticipo perché a parte i primi giorni non raccoglie né interesse né visitatori. In compenso Enwezor si guadagna i gradi per diventare direttore di Documenta 11 a Kassel, dove nel 2002 sulle tracce dell’edizione precedente diretta da Catherine David, farà una mostra che per Barragan rappresenta la “consacrazione delle Biennali Neo- liberali”, dove c’è pochissima pittura ma tanta arte “impegnata” e globale con oltre 600 ore di video. Con un gioco dei paradossi già visto Enwezor, che si rifaceva teoricamente a Marx e a Toni Negri, diventa l’alfiere inconsapevole (?) della deterritorializzazione neo capitalistica. Al modo degli studenti del 1968 che facendo chiudere l’ufficio vendite della Biennale di Venezia favorirono la nascita delle fiere commerciali d’arte.

Mentre la generazione pionieristica dei curatori internazionali come Szeemann e Celant tra fine anni 60 e 70, all’inizio della loro carriera, aveva contribuito a fondare un sistema dell’arte tutto da costruire e dove giravano pochi soldi, le più recenti generazioni di critici e curatori si sono affacciati in un sistema ben più sviluppato e con ben maggiori disponibilità di spazi, fiere, istituzioni , comunicazioni e risorse tanto che il loro ruolo è diventato quello gerarchico e spesso opportunistico degli smistatori più di quello di coloro che davvero rivestono un ruolo critico. Grazie a queste figure di curatori presenzialisti e professionalizzati, lo stesso scenario delle fiere è andato intrecciandosi con le Biennali, mentre un tempo si pensava che il commercio stesse dalla parte delle fiere e l’arte da quello delle Biennali. In realtà i discorsi sono andati mescolandosi sempre di più e le fiere cercano legittimazione teorica assorbendo curatori e critici nei talk e nei vari eventi che le costellano mentre le Biennali necessitano di artisti che abbiano alle spalle una copertura economica. Il mercato inoltre, riflettendo la distribuzione della ricchezza che si è andata determinando con gli effetti del neo-liberalismo, si è fatto più elitario e per certi versi manipolabile con poche gallerie blockbuster e ricche istituzioni private che dominano, imponendo i propri artisti agli spazi e alle rassegne pubblici mentre i costi di promozione , compresa la continua partecipazione alle fiere, rende difficile la vita per le gallerie di medio livello.

 

Walter Bortolossi, I Quattro Continenti - America , 2017, olio su tela cm 110 x 200
Walter Bortolossi, I Quattro Continenti – America , 2017, olio su tela cm 110 x 200

La posizione di Barragan di fronte a tutto questo è di tipo critico ma non ingenua e come abbiamo visto non è utopisticamente avversa al mercato nell’arte: probabilmente le cose andranno avanti in questo stesso modo ma dipende da noi escogitare alternative. Forse già andando a rileggere quanto finora qui scritto si possono trovare dei suggerimenti. Nel frattempo oggi si è sentito dire che secondo certe stime il traffico aereo non si riprenderà integralmente che nel 2023, fatto salvo che l’epidemia sia arrestata, e quindi fino ad allora l’ubiquità globalista sarà ancora in stato di sospensione mentre successivamente, anche a voli ripristinati, non si saprà comunque ancora cosa fare esattamente con Londra, Hong Kong e la Via della Seta.

http://artpulsemagazine.com/

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