Avvolte da un bianco e nero contrastato, le figure femminili ritratte da Nerina Toci appaiono perse in una Sicilia selvaggia e decadente, fuse con il paesaggio architettonico e naturale che le circonda. A raccoglierle è il libro Un seme di collina (2021), edito da Fondazione Mudima.
Arriva a quattro anni da L’immagine è l’unico ricordo che ho (a cura di Letizia Battaglia), il secondo volume della fotografa di origine albanese Nerina Toci (Tirana, 1988). Edito da Fondazione Mudima, è curato da Davide di Maggio e contiene testi di Achille Bonito Oliva, Lorand Hegyi, Dominique Stella, Andrea Lissoni e Lisetta Carmi.
Scattate in Sicilia tra il 2017 e il 2020, le fotografie contenute in Un seme di collina fanno parte di un work in progress che nasce dall’esigenza dell’artista di definire il concetto di reale. Di fatti, il corpo femminile e il suo legame con la natura diventa mezzo attraverso cui trascendere la fisicità per spingersi oltre: inseguendo, incessantemente, l’idea di un’identità universale. Che cosa è reale? Ciò che appare esiste davvero? Il seme rappresenta allora l’origine di tutto ciò che è in potenza di essere. Di tutto ciò che è reale, o che così appare.
Prima ancora, l’indagine di Nerina Toci nasce da un amore ancestrale, oggi più necessario che mai: quello rivolto alla natura. Montagne, mare, alberi, vento. Quando osservo gli oggetti talvolta mi soffermo. Capita quando avverto delle sensazioni, come quando una superficie o una geometria riportano al mio sentire. Cosa c’è oltre la visione delle cose? Oltre le montagne, oltre la luce, oltre il respiro?
E allora il corpo, quell’involucro che contiene le nostre anime, si fa voce e mezzo per spingersi oltre il visibile e il tangibile. Talvolta nudo, talvolta vestito. A volte non sento di appartenere a un corpo, ma è esso stesso che rappresenta e rende fruibili le emozioni, le idee. All’inizio fotografavo il corpo delle donne per comprendere il mio, finché sono arrivata alla rassegnazione e all’accettazione. Un gioco di resistenza. Quando fotografo i soggetti nudi li introduco in modo naturale a manifestarsi attraverso l’esposizione del mio corpo svestito.
Una volta abbandonata la propria figura in seguito a una dolorosa fase di autoritratti, l’artista si è imbattuta in Marianna, una donna scintillante, estroversa, forte. Marianna ha scelto di allontanarsi dai ritmi frenetici della città per trasferirsi sui Monti Nebrodi, a riscoprire un tempo lento in comunione con l’ambiente: una scelta sempre più contagiosa ai tempi del 5G, e specialmente della pandemia. Intrigata dalla sua figura, Nerina Toci ha scelto di esplorarla, scavando a fondo nella sua persona attraverso l’obiettivo.
Ecco che Marianna, e come lei altre donne, appaiono distese, inclinate, si fondono e modellano in base al contesto che le circonda, naturale o architettonico che sia, diventando esse stesse parte del paesaggio. Una comunione che la fotografa mette in pratica in modo istintivo. Tutto ciò che esiste è una fusione o la traccia di un passaggio umano, afferma ancora l’artista.
Ogni soggetto viene scelto in base alle mie sensazioni e a ciò che avverto. Ho fotografato, ad esempio, una catechista accanto a figure nude. Come lei, le donne delle mie fotografie non sono modelle, ma persone che ho incontrato per caso negli anni. Tutte hanno come caratteristica il tormento, la sensibilità, il fascino e una forza incredibile. Ma sopratutto una solitudine ascoltata, inclinata verso la luce. Io fotografo solo chi riconoscono, chi si affida totalmente.
A volte sole, a volte insieme, queste donne, o questi corpi, si donano all’immagine. Eppure per quanto belli, spogliati e “offerti” allo sguardo del lettore, non c’è nessun erotismo nelle opere della Toci: la comunione di queste donne con l’ambiente, le piante, la terra, le rende parte della stessa, porzione di un organismo vivente bello come può esserlo una pianta, un albero, una foglia, nella sua perfetta imperfezione. Il contesto scenico, per quanto possa risultare costruito, contiene istinto e ragione in egual misura. Tante volte mi affido all’immaginazione o addirittura al sogno. Durante l’atto creativo il progetto iniziale subisce variazioni che dipendono sia dai miei stati interni sia dalla contingenza di fattori esterni che condizionano e indirizzano i miei scatti in una direzione piuttosto che in un’altra. Per me l’aspetto tecnico è pura formalità.
A prestarsi come set per queste immagini è una Sicilia selvaggia e sperduta, una Sicilia di foreste e ruderi, di sentieri impervi e paesi arroccati. Una terra in cui la fotografa, nata a Tirana, si è trasferita e con la quale spartisce il tempo con Milano. Sono molto legata alla Sicilia. È decadente, ha lo stesso sentimento che mi porto dentro. Mi ricorda l’Albania. Ci sono borgate, paesi da scovare: sembrano spazi anonimi, ma io li trovo pieni di vissuto e di identità.
I suoi bianchi e neri contrastati, alcuni più di altri, sono difficilmente collocabili del tempo. Sebbene digitali, per tagli, contrasti, ambientazione e altri aspetti potrebbero sembrare contemporanei a quelli di Debora Turbeville o alle prime fotografie di Ferdinando Scianna, nella Sicilia degli anni ’60. I miei lavori non hanno la pretesa di descrivere il nostro tempo, che considero una convenzione. Tuttavia è un mio tentativo collocarle in una dimensione a-temporale che rispecchi i sentimenti del passato, del presente e del futuro. La luce è del tutto naturale: la sfrutto, la scelgo e se necessario mi alzo alle 4 del mattino per cogliere quella più adatta. Ho tratto ispirazione dal cinema: Bergman, Kubrick, Hitchcock. Dalla pittura: Balthus, de Chirico, Magritte. E senz’altro dalla poesia, come da Emily Dickinson, Rilke, Amelia Rosselli. Non mi sono mai ispirata ai grandi fotografi, ma nella loro immensità gli unici che mi abbiano mai sconvolto sono Mario Giacomelli e Joel-Peter Witkin.
Se da un lato, infine, questo libro trasmette un bisogno affannoso di libertà e di liberazione, di riappropriazione del rapporto con la terra, dall’altro sembra affermare un senso di inadeguatezza irreversibile dell’uomo rispetto al suo tempo, alla natura, alla realtà. In generale, lascia il lettore in preda a un senso pervasivo di malinconia. Mi sento libera, ma forse è un’illusione, perché soltanto attraverso la fotografia sento di esserlo totalmente. Senza la fotografia forse non avrei apprezzato e conosciuto fino in fondo la bellezza, ciò che mi circonda e che mi affligge. La fotografia è vita e morte.