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New York, Miami e il Viagra di Don Rubell

Il Rubell Museum Il Rubell Museum
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Amarcord 57 – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi: New York, Miami e il Viagra di Don Rubell

Mi arriva dal mio Redattore Capo da remoto, Sir Georges John Guastella, nobiluomo da Ragusa, un bellissimo articolo sulla famiglia Rubell, la loro collezione e il loro museo a Miami. È scritto in modo semplice ma correttamente informato da Alessandro Montinari, nella newsletter di We Wealth. Desunto da Wikipedia certo ma corretto, dunque onore al merito e all’intelligenza dell’autore. E quando io leggo un testo informativo semplice e corretto in Italia, salto sulla sedia. Sono abituato al critichese disinformato e alle parole al vento.

Io conosco Donald e Mera Rubell dai primi anni ’70. Poi con Helena siamo stati spesso a cena da loro per parlare di arte. Don e Mera erano infaticabili curiosi di arte giovane. Volevano sapere tutto e di tutti, e prendevano nota di ogni dettaglio. I loro interlocutori erano selezionati e veri conoscitori, e loro non trascuravano nulla. A cena con noi, nella loro bella casa nei pressi di Chelsea, una volta eravamo con Keith Haring, loro grande amico e frequentatore, di cui possedevano molte opere sin dai primissimi inizi. E per questo le avevano pagate qualche centinaio di dollari. Forse una volta con noi c’era anche Francesco Clemente. Ed erano cene in cui forse loro informavano noi piuttosto che noi loro. Don e Mera erano due conoscitori incredibili della scena attuale. Sapevano tutto sugli artisti al loro primo apparire e per noi ancora sconosciuti. E li seguivano con amore e curiosità, talvolta aiutandoli oltre il loro interesse da collezionisti.

L’acquisto mancato dello studio di Mapplethorpe

Donald era un noto ginecologo della New York bene, Mera un’abile immobiliarista: ci propose di acquistare, per 300mila dollari, l’ex studio di Mapplethorpe, bellissimo, enorme, di oltre 600 metri, tra SoHo e NoHo. Non lontano da Francesco Clemente, proprio davanti al NoHo bar, uno dei nostri luoghi di incontro con gli artisti per il brunch. Ma Mapplethorpe era deceduto da poco a causa dell’AIDS e noi a vedere lo studio sporco, impolverato, con fogli e fotografie sparsi sul pavimento, vetri rotti alle finestre, forse qualche ratto che correva da un lato all’altro dello studio, ci spaventammo e fuggimmo. Malgrado Mera ci assicurasse che sarebbe stato un grande business (come poi è stato per chi l’ha acquistato) e lei ci avrebbe fatto avere anche un mutuo dalle banche.

Donald poi era diventato un vero amico. Fu lui il primissimo a parlarmi del Viagra: “It’s working Giancarlo, it’s working!”, mi disse ammiccando. Fui incuriosito ma non andai oltre. In Italia non si sapeva ancora cosa fosse. Ma tornato in Italia, parlandone per gioco con alcuni amici, mi saltarono addosso implorandomi di richiederlo subito. Telefonai a Donald che mi disse: “Manda quando vuoi Kate Shanley (la nostra assistente nella Grande Mela di allora) a ritirare la prescrizione”. E Kate, organizzata com’era, mandò un pony a prelevare la ricetta per acquistarmi la confezione blu della Pfizer (già allora all’avanguardia delle necessità umane). Che mi inviò subito con Federal Express, il nostro corriere di riferimento. Ma poi seppi che la confezione, senza allegata la prescrizione medica, fu bloccata alla dogana. Con grande gioia dei doganieri, suppongo, che vedo ancora oggi spartirsi le preziose pillole blu Klein. E con grande delusione dei miei amici in trepida attesa delle pillole miracolose.

Telefonai di nuovo a Kate chiedendo di inviarmi solo le pillole inserite all’interno di una copia di Flash Art. E dopo qualche giorno ricevetti indenne una copia di Flash Art rigonfia di pillole blu. E fu la gioia dei miei amici che subito mi confermarono le virtù miracolose della pillola blu. Io, temendo complicazioni cardiache, ero molto cauto, e poi veramente all’epoca non ne avevo bisogno. Mi sembra di averla usata, come test, una volta, senza dire nulla a Helena: il risultato fu ottimo ma senza una grande differenza (bei tempi, quelli!). Solo la durata forse fu diversa. E ora un blister di Viagra è ancora lì, accanto al mio letto, per ricordarmi gli anni passati in cui guardavo le pillole blu con occhi di sfida. Uscendo spesso vincitore senza il suo aiuto. Ma quando ne ebbi bisogno il mio cardiologo me le proibì assolutamente (si racconta da queste parti, ma non so se sia una leggenda per delegittimare il fondatore della Lega, che Umberto Bossi ne avesse abusato quando ebbe il famoso ictus, di cui porta ancora i segni) e così finì il mio amore per il Viagra, che da quel momento ebbe un posto solo nel Museo dei miei ricordi.

 

Un’opera di Aaron Curry, due sedie di He Xiangyu e dipinti di Oscar Murillo (a sinistra) e Secundino Hernández a casa Rubell
Un’opera di Aaron Curry, due sedie di He Xiangyu e dipinti di Oscar Murillo (a sinistra) e Secundino Hernández a casa Rubell

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Ma con la prescrizione del Viagra non finirono ovviamente i nostri rapporti con il dottor Rubell, né tanto meno con Mera, che cercava sempre un appartamento ideale per noi a New York. E a cena c’era sempre il loro figlio, Jason, e talvolta la figlia, Jennifer, allora teenager, un po’ ribelle ma molto originale. Jason, già un bel giovinottello tipo Marine, era una copia dei genitori. Per corporatura e interesse all’arte simile a Don, e per il piacere di incontrare e parlare con gli artisti, per il grande amore della collezione simile a Mera. Era veramente il figlio che ogni genitore vorrebbe avere, perché a 18 anni già si capiva che lui avrebbe seguìto in grande la strada segnata dai genitori. E così è stato. Ora Jason Rubell è il magnifico deus ex machina del Rubell Museum, una delle attrattive di Miami, con una collezione curiosa, originale, anticipatrice. Ed enorme.

Jason è sposato con Michelle, una ereditiera che ha assimilato l’amore per l’arte e assieme al marito, ma credo con i soldini del papà Jenkins, ha acquisito uno degli hotel più gettonati di Miami, anzi, forse più di uno. Jennifer invece ha avuto e sta avendo una vita multitasking: artista, o meglio “food artist”, e creatrice di grandi eventi, come la grande installazione a base di cibo al Brooklyn Museum e un pranzo memorabile a Londra, in occasione delle nozze di Simon de Pury, proprietario della casa d’aste Phillips de Pury.
Jannifer Rubell è diventata nota anche per il ritratto in cera del principe William, credo ora in casa di Kate Middleton.

 

Jennifer Rubell a braccetto col suo Engagement, ritratto in cera del principe William d’Inghilterra
Jennifer Rubell a braccetto col suo Engagement, ritratto in cera del principe William d’Inghilterra

Ma tornando ai patriarchi, io da sempre ho visto (salvo gli ultimi due anni) Don e Mera Rubell in tutte le fiere del mondo, da Basilea a Hong Kong, e naturalmente di casa all’Armory di New York. Ma ad Art Basel si trattenevano una settimana, dalla pre-inaugurazione sino allo smantellamento, entravano in ogni stand, parlando a lungo con i galleristi e, se c’erano, con gli artisti. E visitando anche tutte le altre fiere in città. Per un paio di anni sono apparsi anche insieme al figlio Jason e alla nuora Michelle, che conduceva una carrozzina con dentro prima un neonato, poi, dopo un anno, un bambino paffutello che già si guardava intorno frastornato e incuriosito dall’arte esposta.

Questa è un po’ la storia vera, non romanzata, della famiglia Rubell, di cui Donald ha rappresentato l’ala diciamo tradizionalista d’avanguardia. Ma che ha costruito una solida famiglia che tutti sognerebbero. Ma c’è anche un’ala più trasgressiva e ancor più creativa nella famiglia, ed è rappresentata da Steve Rubell, fratello di Donald e mitico fondatore del supermitico Studio 54. Il ritrovo del mondo della musica e della cultura di genere internazionale negli anni ’80, e culla di molte tendenze musicali, artistiche e sessuali. La discoteca più ambita del mondo, dove per entrare dovevi essere scelto, con dei buttafuori implacabili. Che una volta vietarono l’ingresso anche a Madonna (forse per alimentare i gossip dei media) con lei che urlava fuori dalla porta di ingresso. Noi entrammo grazie a Francesco Clemente che era di casa e che aveva da poco realizzato all’interno un grande affresco.

Ci ritrovammo in un girone dantesco dell’Inferno, con fumo da mozzarti il fiato, musica da stordirti il cervello, odori nauseanti di sperma e di tutte le droghe del mondo, con gente di tutti i generi che faceva sesso sulle balconate. Una baraonda indimenticabile, che in una volta ti segnava per tutta la vita. E c’era gente che andava ogni sera, cantando, ballando ed esibendosi in tutti i modi possibili. Per avere quei 15 minuti di celebrità tanto decantati da Andy Warhol, il quale invece stava seduto seriosamente e tranquillamente al solito tavolo, impassibile come una sfinge. Ma il fatidico Studio 54 ebbe vita gloriosa ma brevissima. Fondato nel 1977, fu ceduto nel 1980, dopo che Steve Rubell e il suo socio Schrager, accusati di evasione fiscale (a seguito di una ingenua intervista di Steve in cui aveva dichiarato che solo la mafia guadagnava più di loro con lo Studio 54) scontarono un anno di prigione e poi su cauzione uscirono entrambi.

Ma il desiderio di tornare alla discoteca multitasking da parte di Steve Rubell e del suo socio era scritto nel loro DNA. E dopo l’apertura (con successo) di una catena di ristoranti, approdarono nuovamente in discoteca aprendo nel 1985 il Palladium. Uno storico locale (Academy of Music) ristrutturato dall’archistar Arata Isozaki. che in poco tempo diventò la nuova attrazione di New York, ma meno trasgressivo dello Studio 54. E dove si esibirono i migliori gruppi musicali americani e inglesi e furono organizzate mitiche mostre di Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol. L’inseparabile trio che dominò una certa scena culturale newyorchese di quegli anni. Ma anche il mito del Palladium non durò molto, perché nel 1989, a soli 46 anni, Steve Rubell morì di AIDS. Il Palladium però sopravvisse sino al 1997, allorché fu acquisito e demolito dalla New York University per crearvi, in un edificio di dodici piani, una residenza per gli studenti.

 

Infinity room, di Yayoi Kusama
Infinity room, di Yayoi Kusama

Nel frattempo Don e Mera Rubell, con il figlio Jason, dopo una lunga spola tra New York e Miami decisero di stabilirsi nella città che ospitava la fiera Art Basel Miami. E che stava crescendo a dismisura attraverso un turismo di qualità con un forte desiderio di arte. Dove decisero di spostare la loro collezione, in un ampio spazio che denominarono Rubell Family Collection che io visitai. E dove vidi tutto il percorso di Keith Haring e i primissimi Jeff Koons, Richard Prince, Cindy Sherman. Ma nel 2019 la famiglia Rubell decide di inaugurare un nuovo incredibile spazio, con 40 stanze per le opere, un ristorante basco e un giardino con centinaia di piante esotiche e autoctone. Un piccolo paradiso terrestre per chi ama l’arte e vuole ammirare in assoluta tranquillità capolavori di Yayoi Kusama, Peter Halley, Jenny Holzer, Louise Lawler, David Salle e Christopher Wool.

Ma troverete anche lo Store Rubell Museum, con gadget, poster, magliette. Sino alle candele che tanto amerebbe acquistare Helena per la sua collezione, con un livello qualitativo da far invidia al miglior stilista. Visitando questa meraviglia ti viene da gridare al miracolo. Una raccolta di oltre 7000 opere di più di mille artisti, i migliori al mondo. E in assoluto i migliori americani, come si conviene a un patriota sostenuto e incoraggiato dal proprio paese. Una collezione costruita con amore e passione da un ginecologo e sua moglie immobiliarista.

 

Abbigliamento e merchandising dello store del Rubell Museum
Abbigliamento e merchandising dello store del Rubell Museum

Non si capisce come questo miracolo possa essere avvenuto. Ma si sa, il privato negli USA non viene osteggiato e punito, ma protetto e additato come un benefattore dell’umanità. Allora pensi alla nostra povera Italia, dove i nostri eroici collezionisti sono costretti alla semiclandestinità e molto spesso alle opere minori per questioni di spazio. Allora ti viene in mente la poesia di Leopardi sulla nostra povera Italia e come lui ti chiedi: chi la ridusse a tale?

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

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