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Il cinema USA: fabbrica di sogni, deposito di incubi

Billy Lynn Billy Lynn - Un giorno da eroe (Ang Lee)
Billy Lynn
Billy Lynn – Un giorno da eroe (Ang Lee)

Fabbrica di sogni, deposito di incubi: Dieci anni di cinema USA 2010-2019. Una ricognizione sui temi e i protagonisti di un decennio di cinema americano

Fabbrica di sogni, deposito di incubi: Dieci anni di cinema USA 2010-2019, è uscito in libreria (Mimes edizioni) il volume di Stefano Santoli che guarda allo scorso decennio di cinema made in USA; dieci anni di film, registi e spettatori, al tempo stesso un saggio e una guida aperta a tutti, cinefili e non.

Cosa è successo negli Stati Uniti d’America negli ultimi 10 anni? Parecchie cose. Come hanno influenzato il cinema? In parecchi modi. Il primo decennio del XXI secolo è stato segnato dal trauma dell’11 settembre, quello successivo ha visto invece subentrare nuove questioni che si sono fatte subitaneamente spazio nell’immaginario collettivo: l’elezione di Obama e quella di Trump poi, con tutto quello che hanno comportato. Quella di Barack Obama è stata una presidenza dal grande valore simbolico, ha chiuso il decennio precedente (amministrazione Bush) caratterizzato dalla paranoia delle guerre al terrorismo, nell’aria un nuovo ottimismo.  In quegli anni però inizia una grave crisi economica, un lungo strascico del 2008, situazione che acuisce le diseguaglianze sociali determinando una polarizzazione ancora più marcata tra centri urbani e provincia, terreno che spiana la strada per l’ascesa al potere di Trump. Le tensioni sociali diventano sempre più violente, il populismo dilaga, la psicosi del complotto dilaga, le minoranze sono sempre più più sotto pressione. La pentola a pressione scoppia: il #metoo (nato proprio nel mondo del cinema) e il #blacklivesmatter si impongono come movimenti per i diritti civili di risonanza mondiale. Lo specchio scuro del cinema non sta a guardare.

Hollywood cerca di prendere le distanze da questo panorama, impone nuovi canoni di inclusione e detta parametri che convergono negli inclusion standard (validi per le candidature Oscar dal 2024). Intanto il mondo dell’audiovisivo vede l’espansione della serialità, grazie a fenomeni quali Netflix e Prime Video; la qualità delle serie TV diventa sempre più alta e il mondo dello streaming guarda al cinema, chiamando a sé autori e registi del grande schermo. Il decennio 2010-2019 si chiude simbolicamente, lasciando spazio a quello nuovo, con la vittoria agli Oscar 2020 di Parasite (già Palma d’Oro a Cannes 2019) e con l’avvento della pandemia Covid-19. Ed eccoci qua.

Tra finzione e realtà, il primo capitolo del libro, prende in considerazione la tendenza all’immersione sensoriale dello spettatore grazie all’evoluzione della tecnologia 3D e CGI. Vi ricordate Avatar, la “rivoluzione 3D”? Nel 2010 diventa il film più visto di sempre. Sembrano passati 30 anni e intanto il 3D è già stato archiviato. «La considerazione più interessante con riguardo agli sviluppi più recenti della CGI […] è che, più che allontanarsi dalla realtà, il digitale sta confermando la vocazione del cinema americano di ricreare la realtà con effetti di stringente fotorealismo», spiega Santoli.
Nel panorama della produzione 3D l’autore nota, giustamente, come i più interessati alle possibilità offerte da questo tipo di tecnica siano stati, infine, autori come Ang Lee (Vita di Pi, Billy Lynn – Un giorno da eroe e Gemini Man) piuttosto che i grandi studios che presto hanno mollato il colpo: costi alti per ottenere prodotti buona qualità (il 3D nativo) e difficoltà di fruizione (la scarsa luminosità degli occhialini; ancora ricordo come un incubo in sala Ritorno alla vita di Wim Wenders, due ore di schermo verde petrolio).

Avengers: Infinity War
Avengers: Infinity War (Anthony e Joe Russo)

Sempre nel primo capitolo si analizzano inoltre fenomeni come la fioritura del panorama dedicato ai supereroi e il consolidamento dell’impero Disney, che ha prima acquisito Pixar, poi la Marvel e infine (per ora) la 20th Century Fox. Questo ha portato la compagnia dominare il mercato e a omologarlo (nel 2019 ha lanciato un blockbuster al mese), una politica di espansione trainata dall’incredibile successo dei film Marvel e dal rilancio del brand di Star Wars, più – ovviamente – tutti i brutti live action dei grandi classici animati che hanno fatto furore al botteghino.

Il secondo capitolo, Sguardi sul passato, analizza le prospettive con cui il cinema di oggi guarda al passato, tra new western e american dream. Il terzo capitolo, Sguardi al presente, è quello più articolato, il più ricco. In questo contesto si sottolinea come il cinema USA è nuovamente attento a intercettare i processi sociali in corso e il loro mutamenti, facendo proprie le tempistiche instant dei fenomeni social che ormai sono diventate pervasive in tutto il mondo della comunicazione.

Percorsi d’autore è invece il quarto capitolo, che affronta i percorsi autoriali di alcuni registi particolarmente significativi per il decennio 2010-2019, quali, tra gli altri, Tarantino, Paul Thomas Anderson, Clint Eastwood, Martin Scorsese e Woody Allen. I giovani autori? Sembrano essere una minoranza.

Il Filo Nascosto (Phantom Thread),
Il Filo Nascosto (Paul Thomas Anderson)

L’analista di Stefano Santoli – sempre molto lucida, pratica e chiara – prende in esame questo complesso panorama di trasformazioni suggerendo in quali modi (e forme) il cinema le ha intercettate (o, forse più corretto sarebbe dire, in quali modi queste trasformazioni socio-culturali hanno intercettato il cinema). Il libro fa ordine in questo periodo particolarmente denso (e veloce), tracciando tendenze, proponendo riflessioni, individuando spunti tematici e analisi trasversali. La sua è la ricognizione di un decennio di cinema statunitense che sottolinea – rispetto al decennio precedente – gli sviluppi di alcune tendenze e l’inversione di altre.

La transizione, nel secondo decennio del XXI, dalla paranoia post 11 settembre all’incertezza sul futuro e sulla centralità degli USA come potenza mondiale è stata un terreno fertile per la (ri)germinazione, fino a esiti esasperati, di uno dei tòpoi della poetica letteraria statunitense: il riscatto, quel momento glorioso che per l’eroe arriva dopo la sconfitta (di volta in volta sempre più clamorosa, dura, violenta). Da autori come Alejandro G. Iñárritu con Revenant (che rappresenta anche il riscatto artistico di Leonardo DiCaprio che finalmenta agguanta un Oscar) fino al MCU, in particolar modo con gli ultimi due episodi della fase tre, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame (il secondo film più visto di sempre dopo Avatar, apertura e chiususa di un decennio). Anche quando si tratta di supereroi e superpoteri, l’eroe perde la sua corazza (Robocop e Terminator sono lontani ricordi) e diventa sempre più vulnerabile, tormentato, fallibile.

Gli scenari si spostano, sempre più indietro (nel mito fondativo della nazione, il new western: dal Django Unchained di Tarantino, 2012, fino al recente First Cow di Kelly Reichardt) e in avanti, riportando in auge un genere piuttosto trascurato del decennio precedente, la fantascienza (da Gravity di Alfonso Cuarón al ritorno della saga di Alien per mano di Ridley Scott con Prometheus, 2012, e Alien: Covenant, 2017).

Parasite, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, al cinema dal 7 novembre
Parasite (Bong Joon-ho)

In questo lungo excursus tra temi, fenomeni e protagonisti, emerge l’apertura sempre maggiore di Hollywood agli autori stranieri, il decennio tra il 2009 e il 2019 è stato dominato dai registi messicani: Cuarón, Iñárritu e Benicio Del Toro. Ora le porte sono aperte, forse, anche alla Corea del Sud e alla Cina (ma con cautela, su entrambi i fronti), con Park Chan-wook, Bong Joon-ho e Chloé Zhao già premiati (ovvero sdoganati) e al lavoro su grandi produzioni. Con gli autori giapponesi c’era stato un tentativo nei primi anni 2000 sull’onda dell’entusiasmo per il J-Horror, ma era stato – in fondo – più un modo per cavalcare una moda passeggera che funzionava bene al botteghino, questa nuova tornata di registi stranieri sembra invece collocarsi in un terreno più fertile e più attento alle esperienze global, sia per quanto riguarda i modi della narrazione che i meccanismi del mercato. Che sia, forse, questo «processo di internazionalizzazione del cinema statunitense» una nuova forma di colonialismo?

Dieci anni di cinema USA

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