Raffaello a Capodimonte: l’officina dell’artista, allestita nelle sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte, a Napoli, a cura di Angela Cerasuolo e Andrea Zezza, fino al 13 settembre 2021.
Quando si pronuncia il nome di Raffaello Sanzio (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520), subito si pensa all’artista della grazia e della bellezza. Rappresenta la sintesi dei principali linguaggi artistici del suo tempo, dalla compostezza umbra alla sensibilità leonardiana, fino ai temi michelangioleschi, mediati dalla sua visione solenne e posata. Nell’ambito delle celebrazioni per i 500 anni dalla morte, ulteriori spunti di riflessione sulla sua creatività e sulle novità emerse dalla campagna di indagini diagnostiche effettuate sui dipinti, sono visibili e resi noti al pubblico nella interessante mostra dal titolo, Raffaello a Capodimonte: l’officina dell’artista, allestita nelle sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte, a Napoli, curata da Angela Cerasuolo e Andrea Zezza, fino al 13 settembre 2021. Il percorso espositivo offre ai visitatori un approccio originale sia alle sue opere d’arte, sia al lavoro della bottega dell’artista e a quelle dei suoi seguaci, mettendo in luce la complessità che sta dietro la creazione delle tele originali, multipli, copie e derivazioni.
Nella prima sala vi è una panoramica sul contesto in cui si è formato Raffaello, nella città di Urbino, nella regione Marche. Questa agglomerato urbano è rappresentato dal ritratto di Luca Pacioli con un allievo, attribuito al pittore Jacopo De’ Barbari (1450-1516). Il grande matematico è circondato da strumenti che ne ricordano gli studi sulle proporzioni armoniche, dove illustra gli Elementi di Euclide, un aspetto che sarà fondamentale nell’arte di Raffaello. A destra vi è un dodecaedro, uno dei cinque solidi regolari simboli degli elementi fondanti dell’Universo secondo Platone. Queste figure geometriche erano illustrate nel trattato di Piero della Francesca, De quinque corporibus regularibus, e a questo studio si ispirerà Pacioli per la sezione aurea, la Divina Proportione, che sarà illustrato da Leonardo da Vinci. Inoltre nella tela, in alto è sospeso un solido di cristallo, un rombicubottaedro, riempito per metà di acqua, in cui si riflette per tre volte un edificio, forse il Palazzo Ducale di Urbino.
Seguono nella esposizione tre dipinti che ispirarono Raffaello agli inizi della sua carriera: una Madonna col Bambino del Perugino (1448-1523), caratterizzata dalla nuova dolcezza né colori unita propria di questo artista; una Natività di Luca Signorelli (1441-1523), che è un buon esempio della sua tecnica e del suo stile fortemente plastico, quasi opposto a quello del Perugino; ed infine, l’Assunta, di Pinturicchio (1452-1513), da cui imitò le dolcezze e le esuberanze decorative.
Nella seconda sala, di notevole interesse sono i due frammenti dell’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, la prima opera realizzata da Raffaello in società con Evangelista da Pian di Meleto (1460-1549), già collaboratore del padre Giovanni Santi (1440 circa -1494) per la Città di Castello. Nel 1789 la pala danneggiata da un terremoto fu venduta al Papa Pio VI e ridotta in piccoli quadri. Due frammenti finirono a Roma nel 1799 per le collezioni borboniche, di cui si perse la memoria della loro provenienza, ricostruita solo nel 1912 con l’identificazione di un Angelo conservato a Brescia, a cui si è poi aggiunto un altro Angelo acquistato dal Museo del Louvre nel 1981. La ricostituzione della pala perduta visibile in mostra si basa sui disegni preparatori di Raffaello, su una copia parziale realizzata dopo la vendita e su osservazione di elementi figurativi e materiali desumibili dai frammenti, come la dimensione degli assi di supporto, le proporzioni delle figure e la costruzione prospettica dello spazio.
D notevole fattura è la Madonna del Divino Amore, ritenuta un capolavoro del maestro di Urbino. Dal Cinquecento all’Ottocento era stato considerato uno dei dipinti più preziosi della Collezione Farnese, ammiratissimo e continuamente copiato. Solo successivamente la critica lo declassò, attribuendolo alla bottega. Su questa decisione incise la convinzione che il grande disegno conservato a Capodimonte fosse un cartone preparatorio, utilizzato per trasferire i contorni sulla tavola. Le indagini hanno chiarito, invece, che si tratta di una copia, poichè riproduce ogni dettaglio del dipinto finito. La riflettografia ha rivelato sulla tavola, al di sotto della pellicola pittorica, un disegno preparatorio con cui Raffaello ha apportato importanti modifiche alla composizione nel corso dell’esecuzione pittorica con un tratto straordinariamente libero e creativo.
Ancor prima della morte di Raffaello, le sue tele venivano copiate e replicate. Ciò avveniva all’interno della sua bottega che egli aveva organizzato come una squadra in grado di promuovere e diffondere le sue invenzioni. Per questo il concetto di copia è ricco di significati diversi, dalla replica alla contraffazione. Nella prima eccellevano i suoi stessi allievi, autorizzati a possedere il “marchio di fabbrica”; nella seconda, invece, si sfidavano seguaci ed artisti anche di massimo livello. La duplicazione delle sue opere sarebbe proseguita nei secoli per la rapida elevazione del divin pittore al rango dei modelli dell’antichità. In questa sala sono riuniti i dipinti significativi di quella straordinaria produzione artistica. Come il Ritratto di Papa Leone X, di Andrea Del Sarto (1486-1530), ispirato a Raffaello. Questo quadro ha lo strano destino di essere tra i più celebri del museo, pur essendo una copia. Ciò è dovuto non solo per la sua qualità e per l’importanza dell’artista che fu il migliore pittore fiorentino della sua generazione, ma anche per il lungo brano che gli dedicò Giorgio Vasari (1511-1574), rendendolo un caso esemplare della difficoltà di distinguere gli originali dalle copie. La riproduzione sarebbe stata eseguita per beffare il Duca di Mantova, che aveva richiesto in dono l’originale di Raffaello, e il risultato sarebbe stato tanto perfetto da ingannare anche il suo pittore di corte, Giulio Romano (1499-1546), che da giovane aveva partecipato alla esecuzione del prototipo. Quest’ultimo una volta scoperta la frode, non cambiò idea, affermando: Io non lo stimo meno….anzi molto più, perché è cosa fuor di natura che un uomo eccellente imiti sì bene la maniera d’un altro e la faccia così simile.
Un importante contributo per la ricostruzione e l’attribuzione di un’opera arriva dalla tecnologia. Da tempo i dipinti sono oggetto di studi scientifici sui materiali pittorici e sullo stato di conservazione. Oggi è possibile ottenere informazioni anche sui processi creativi e compositivi. Mettere in luce la pratica esecutiva di un artista significa conoscere come erano preparati i supporti, se l’opera era abbozzata mediante disegni preparatori, se sono presenti cambi di intenzioni (pentimenti), e come gli strati pittorici sono stati stesi per ottenere l’effetto desiderato. La radiografia a raggi X, la riflettografia IR e la fluorescenza a raggi X sono ormai entrate nelle consuetudini degli studi in questo campo. Inoltre, l’introduzione della tecnica di imaging MA-XRF ha fornito un nuovo formidabile strumento in grado di offrire informazioni precise e di facile lettura, consentendo la caratterizzazione dei materiali utilizzati dall’artista e della loro distribuzione su tutta la superficie della tela.
Proprio i dipinti esposti nell’ultima sala della mostra, sono stati oggetto di indagine tecnologica, affiancati da alcuni video esplicativi. La Madonna della Gatta è citata dal Vasari e attribuita una volta a Raffaello e una volta a Giulio Romano. Come opera dell’artista di Urbino sembrava fosse stata acquistata dai Gonzaga, ma almeno per due secoli era stata considerata del suo allievo. Le indagini giustificano queste oscillazioni, mostrando il complesso iter compositivo che ha portato al suo aspetto attuale. Radiografie, riflettografie e MA-XRF rivelano una stesura estremamente stratificata, dove i volti delle figure principali, già dipinti negli strati inferiori in modo naturale e armonioso, appaiono trasformati nell’esecuzione finale in modo più incisivo e caricato, tipico di Giulio Romano. Si tratta probabilmente di una tela portata avanti da Raffaello prima di morire, lasciata incompiuta e poi terminata dal suo erede secondo il proprio gusto. La inusuale stratificazione è alla base anche della precaria conservazione del dipinto, in alcune parti gravemente sfigurato da antiche cadute di colore e da malaccorti restauri.
A chiusura del percorso espositivo sono le tre tele, Madonna del Passeggio, la Madonna di Loreto e la Madonna Bridgewater, tutte ritenute copie da composizioni di Raffaello. Sono però molto diverse tra loro. Le indagini e il restauro della Madonna del Passeggio hanno evidenziato una tela dipinta in modo accurato e diligente con materiali e metodi non diversi da quelli usati nella bottega del maestro di Urbino. Le analisi hanno rivelato punti di contatto con il presunto “originale”, oggi a Edimburgo, soprattutto con il disegno sottostante reso visibile dalla riflettografia, mentre tra i due quadri finiti ci sono analogie e varianti significative. Ciò porta a pensare che si tratti di una replica, di un secondo esemplare portato avanti da un collaboratore, in modo parallelo all’originale. Le altre due opere, invece, la Madonna di Loreto e la Madonna Bridgewater, mostrano chiaramente nel disegno sottostante, un processo meccanico di trasposizione, più libero nel primo caso e più pedissequo nella seconda.