Per Enrico Genovesi il reportage a sfondo sociale incentrato su storie italiane è pane quotidiano. La ricerca – accurata di significato e di profondità – insieme a sensibilità e tenacia sono le caratteristiche principali del suo talento. Da poco ha concluso un progetto fotografico, raccolto in un libro: Nomadelfia, Un’oasi di fraternità.
L’autore restituisce con stile narrativo, intimo e poetico, sottolineato da un intenso bianco e nero, la storica realtà comunitaria di Nomadelfia, fondata da Don Zeno Saltini. Qui regnano valori inestimabili quali famiglia accoglienza, fede, sobrietà, giustizia e fraternità. Il suo nome è un neologismo dal greco antico nomos e adelphia, che tradotto significa “legge di fraternità”, ed è il frutto di un lungo cammino individuale e comunitario.
Pagina dopo pagina scorrono le storie di vita quotidiana di alcune delle 300 persone che vivono nella comunità, nata nel 1948 nell’ex campo di concentramento di Fossoli (MO) con lo scopo di dare un padre e una madre ai bambini abbandonati e ora stabilizzata in un’area di quattro chilometri alle porte di Grosseto.
Enrico Genovesi, che per questo progetto ha ricevuto premi e riconoscimenti, ha deciso di finanziare la pubblicazione del volume attraverso una campagna di crowdfunding, promossa da Crowdbooks. Ad ArtsLife racconta la genesi del suo lavoro su Nomadelfia, comunità che ha ispirato nel tempo tanti grandi autori tra i quali Federico Patellani, Ugo Mulas o Mario De Biasi.
Qual è stata l’occasione che ti ha portato a conoscere Nomadelfia?
L’idea di avvicinarmi a Nomadelfia nasce all’inizio del 2017 e l’input arriva dal progetto nazionale della FIAF (Federazione italiana associazioni fotografiche) che riguardava la famiglia. Io non sapevo molto all’epoca di Nomadelfia, anche se è relativamente vicina perché è a una distanza di 100 kilometri da casa mia, un’oretta di auto ma sapevo quel tanto che bastava per trovare in questa realtà una forte attinenza al tema richiesto dalla FIAF. Perché Nomadelfia, come la definiva lo stesso Don Zeno, il fondatore, è una famiglia di famiglie. Quindi mi sembrava perfettamente calzante per la storia.
Decido allora di partire per Nomadelfia, dopo essermi documentato e anche con delle idee abbastanza prevenute perché si entra all’interno di una comunità con mille domande. Ma è stato bello scoprire ed è bastato poco per capirlo che questa comunità è molto più aperta di quanto si immagini. Come ho scritto non esistono cancellate o muri di cinta in una area rurale di circa 4 chilometri quadrati. E si trova lì dalla fine anni Quaranta circa quando Don Zeno Saltini per varie vicissitudini viene sfrattato dal Campo di Fossoli dove Nomadelfia era nata. E approda lì a Grosseto grazie a una benefattrice Maria Giovanna Albertoni Pirelli che s’innamora della causa di Don Zero e, per quanto può, lo aiuta.
Don Zeno, personaggio rivoluzionario, controverso, attaccato dalla Chiesa e dalla politica, accusato di apologia del comunismo, ne ha subite di tutte. È stato vicesindaco a Mirandola applicando l’esproprio proletario. Veramente un prete rivoluzionario. E prima della sua politica religiosa metteva davanti a tutti i principi che poi alla fine sono principi universali. La fede che è un dono, come sappiamo. E in primis la giustizia. La giustizia per lui era sacra e, per esempio, arrivò a minacciare di chiudere la chiesa vedendo disparità di trattamento tra bambini vestiti molto male e bambini ben vestiti perché di famiglie più abbienti.
Quando ho iniziato a frequentare Nomadelfia ho capito da subito che questa realtà era veramente unica e meritava un approfondimento più corposo. E quindi oltre a voler assolvere l’impegno che era richiesto per questo progetto, ho sentito l’esigenza di continuarlo.
Quattro anni di impegno fotografico. Nei primi due anni, 2017 e 2018 ho costruito l’ossatura della narrazione e ho iniziato a partecipare a premi fotografici dove è sempre andata bene. Tra i vari riconoscimenti, il progetto è stato finalista al Global Peace Photo Award nel 2019 e ha vinto nella categoria photo story l’Italian Sustainability Photo Award nel 2020, ma i premi, si sa, vanno e vengono.
Puoi raccontare la tua esperienza all’interno della comunità ?
Ho sentito l’esigenza di approfondirla ritornando più volte fino al 2020 in più riprese andando di volta in volta a cogliere quegli aspetti che ritenevo significativi per una narrazione più possibile completa sotto i tutti i punti di vista ed è stata un’esperienza completa perché ho trovato delle persone straordinarie e ho intessuto delle relazioni bellissime e amicizie anche profonde.
Don Zeno è morto nel 1981 ma questa iniziativa che nasce come utopica esiste come realtà da oltre 70 anni. È un esempio illuminante con regole semplici e, se funziona, vuol dire che è possibile.
Nessuno ti considera come ospite, vieni calato nel gruppo familiare. È bello perché vivi questa realtà e la tocchi con mano. Credo che Nomadelfia sia unica nel suo genere in Italia. Sono circa 300 persone divise in gruppi di famiglie. Dispone di una sua Costituzione che si basa sul Vangelo. Il Vangelo è il loro punto di riferimento, la fede è importantissima e probabilmente gli permette di superare controversie che per noi sarebbero meno facilmente superabili. E la fraternità è la parola chiave, vivere da fratelli secondo i dettami del Vangelo ed è incredibilmente anche attuale nella tematica perché oggi si parla molto di fraternità. Ha una sua storia, una sua cultura, una sua legge, un suo costume di vita, una sua tradizione. Per lo Stato è un’associazione civile, organizzata sotto forma di cooperativa di lavoro, per la Chiesa è una parrocchia e un’associazione privata tra fedeli.
Cosa ha rappresentato Nomadelfia per te dal punto di vista umano e fotografico?
Dal punto di vista umano, alla fine se ci penso bene tutti i miei lavori vanno in questa direzione. Arricchirmi come persona. La fotografia è quasi una scusa, per capire, per farti un’esperienza e ti accorgi di portare a casa una valanga di esperienze. Quando concludi queste esperienze, che sia nelle carceri o in posti come questo, non puoi essere lo stesso di prima. Tutto ti porta a riflettere. Anche perché questa realtà particolare ti pone proprio nella condizione di farti tantissime domande.
Quali difficoltà hai riscontrato nel concepire la storia fotografica?
Dovevo trovare la quadra. Come ci esco da questa cosa? Che dritta dare? Don Zeno era un grande amante del cinema e della fotografia e la comunità si racconta benissimo da sola. Hanno un canale privato dove documentano tutto visivo e un archivio fotografico strepitoso. Sono passati da lì tutti i fotografi e personaggi più famosi da Federico Patellani a Ugo Mulas, da Giorgio Lotti a Ivo Meldolesi. Enzo Biagi ne ha fatto un documentario. Sono sempre molto attenti alla comunicazione. Ovviamente si raccontano con filmati semplici. Anche questo è stato un imbarazzo per me. Dovevo trovare un modo per non sovrappormi a così tanto materiale documentario che già era stato fatto. E a quel punto ho dovuto fare delle scelte di linguaggio. Il bianco e nero è stato immediatamente il primo linguaggio tecnico che mi è venuto in mente.
Benché mi muova indifferentemente anche a colori, ho sentito le esigenze del bianco e nero. Ho percepito una realtà un po’ fuori dal tempo. A Nomadelfia non ti senti più nell’anno attuale, ti senti quasi in un mondo esterno e la caratteristica un po’ atemporale che il bianco e nero ha da sempre mi è sembrato assolutamente pertinente. Poi il b/n risponde anche dal punto di vista psicologico perché questa comunità vive di sobrietà, di scelte di essenzialità e quindi cosa c’è di più essenziale del bianco e nero che scarnifica tutto e porta all’essenza delle cose?
Nella narrazione ho voluto mantenere un doppio binario. Da una parte ho cercato di utilizzare degli spazi un po’ evocativi senza abbandonare la traccia documentaria e fotogiornalistica classica perché chi guarda le foto deve capire e non deve soltanto sognare. In questo caso è un’operazione anche informativa e quindi ho cercato di equilibrare la narrazione affinché chi guarda le fotografie si faccia anche delle domande e sia sollecitato a saperne di più. Comunque l’informazione è alla base di tutto.
Il libro è stato finanziato attraverso una campagna di crowdfunding promossa da Crowdbooks?
L’operazione è andata molto bene. Incredibilmente già dal lancio in prevendita ha suscitato l’interesse di moltissime persone e abbiamo raggiunto il goal con un mese d’anticipo.
Il progetto Nomadelfia si conclude qui?
No. Adesso tutte le mie energie si stanno concentrando nel portare avanti la divulgazione del libro, anche attraverso varie presentazioni in giro per l’Italia.
Inoltre si sta sviluppando una operazione davvero interessante, prevista a settembre prossimo, per la quale è forse prematuro dare anticipazioni. Tutto è comunque orientato al far conoscere questa splendida realtà a cui ho dedicato quattro anni della mia professionalità fotografica..
Nel frattempo sto lavorando all’Università di Pisa su un tema completamente diverso legato all’ambiente. In particolare sulla banca dei semi, cioè la banca dei germoplasma, la caratteristica genetica delle specie vegetali spontanee che vengono conservate e trattate in diversi laboratori per un eventuale riutilizzo nel futuro. Queste banche sono luoghi dove vengono conservati i semi per preservare la biodiversità vegetale.