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Il Louvre e lo Chardin notificato. La tutela del Patrimonio Culturale è migliorabile?

Jean-Siméon CHARDIN (1699-1779) Le panier de fraises des bois Huile sur toile Signée ‘Chardin’ en bas à gauche 38 x 46 cm Vendu : 24 381 400 € - 26 830 512 $ frais inclus
Jean-Siméon CHARDIN (1699-1779) Le panier de fraises des bois Huile sur toile Signée ‘Chardin’ en bas à gauche 38 x 46 cm Vendu : 24 381 400 € – 26 830 512 $ frais inclus

Una riflessione sul rapporto tra “pubblico interesse” e “interesse privato” e sulla necessità di stabilire un insieme di regole che vadano a creare delle condizioni di maggiore trasparenza sulla conduzione delle tutele nei riguardi delle opere d’arte, pur non riducendole

Come è noto a chi si interessa di arte, il Louvre ha recentemente richiesto che un’opera di Chardin, Basket with Wild Strawberries, battuta all’asta per quasi 27 milioni di dollari, venga “notificata” con lo scopo di attivare le procedure per poterne poi tentare l’acquisto.

Si tratta di una scelta più che legittima, che si basa su un corpo di leggi e una solida tradizione europea. Il corpus di leggi che regolano, in Francia come in Italia, l’esportazione di determinate opere d’arte è realizzato per garantire la tutela del bene collettivo: un’opera che si ritiene di significativo valore culturale può e deve essere soggetta a determinate tutele. 

Non è un argomento nuovo: ogni volta che si verificano casi come quello in corso in Francia si ripetono pedisseque le stesse dinamiche: riflessione sulla congruità della norma, riflessione su differenti modelli, evidenze che dimostrano come, nel mercato italiano ancor più che in quello francese, sia proprio l’incertezza che regola l’intero apparato di procedure legato alla “notifica” generi un’incertezza nel mercato ancor più forte che la notifica in sé.

Irrimediabilmente, poi, intorno alla notizia c’è chi difende strenuamente la funzione pubblica in difesa del patrimonio collettivo, e chi, al contrario, si auspica una più decisa apertura al mercato.

Da un lato e dall’altro ci sono argomentazioni tecniche e posizioni personali più che legittime: chi difende il patrimonio lo fa in nome del bene della collettività, e nella tutela del patrimonio culturale di una nazione; chi invece sostiene l’apertura al mercato identifica in questo meccanismo una forzatura ideologica, perché per essere realmente “coerente” la tutela non dovrebbe porre limiti “nazionali”, ma “territoriali”, o perché un eccesso di regolamentazione può favorire anche gli scambi su mercati paralleli.

Nel meccanismo tipico delle tifoserie, però, si rischia di lasciare sullo sfondo alcune riflessioni più strutturali, e che forse vale la pena inserire nel dibattito pubblico.

– Al primo punto la constatazione che il corpo originario delle norme che regolano l’esportazione di opere d’arte è molto risalente nel tempo e che le modifiche applicate successivamente sono modifiche non “strutturali”. 

Ciò non significa che sia necessariamente “da rivedere”, ma di fronte a tale evidenza, poter comprendere se tali regole rispondano al pensiero delle nostre società contemporanee è lecito. In altri termini, se le dovessimo scrivere ora, come cambierebbero? Perché? Sulla base di quali “differenti posizioni”? Le leggi dovrebbero sempre essere espressione del pensiero contemporaneo, anche quando questo si mostra in una linea di continuità con il passato.

– Al secondo punto è il meccanismo: allo stato attuale, non è lecito sapere se, all’interno di determinate caratteristiche, un’opera possa essere realmente esportata o meno. La pragmatica del meccanismo è corretta, ma qualche evoluzione, nella gestione del fenomeno, può pur sempre essere adottata, prevedendo ad esempio che con cadenza regolare, lo Stato richieda a tutti i cittadini di mostrare le opere d’arte in proprio possesso al fine di determinarne l’esportazione. Tale procedura sarebbe ovviamente facoltativa, ma sarebbe dunque il cittadino a scegliere se “seguire l’iter attuale” o meno. 

– Al terzo punto, l’equilibrio tra le parti: da un lato abbiamo un mercato che ormai viaggia su ritmi evidentemente sostenuti; dall’altro abbiamo un opposto, con una Pubblica Amministrazione che si basa su iter procedurali lunghi, troppo lunghi per le esigenze dei cittadini.

La decisione di “bloccare” l’espatrio di un’opera dovrebbe essere “immediata”: c’è una vendita, c’è un soggetto autorizzato a richiederne la “notifica” avendo al diritto di prelazione. Nel momento in cui tale evento accade, lo Stato paga l’opera e ne entra in possesso.  Al compratore viene tuttavia imposto di mantenere l’offerta attiva entro un periodo di tempo “determinato”. Se l’iter di valutazione da parte delle autorità conferma i requisiti della notifica, e quindi il diritto di prelazione, nulla cambia. Se invece tali requisiti non vengono confermati rende l’opera al compratore entro i termini previsti a fronte del rimborso delle spese.

Per quanto una modifica del genere modifichi pochissimo la realtà dei fatti, stabilisce un maggiore equilibrio nel momento in cui lo Stato entra, di fatto, all’interno di un mercato, assumendo quindi anche i “rischi” di questa tipologia di attività. 

Si tratta di riflessioni aperte, di mere suggestioni, che non vogliono risolvere, in un articolo, una tematica che vede impegnati professionisti di differente natura. Ma tali suggestioni, se hanno un pregio, è quello di suggerire una “traslazione dell’attenzione” dal “cosa” al “come”: perché è indubbio che la tutela del Patrimonio Culturale sia uno dei principi cardine della nostra società civile; dubbio è, invece, se il modo con cui questa tutela viene operata sia migliorabile o meno.

 

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