Alex Katz. La vita dolce è una delle più importanti retrospettive mai realizzate in Italia sul pittore americano. Il suo valore risiede nella qualità dei pezzi esposti, rappresentativi dello stile unico di Katz, mai pienamente associabile a un qualsivoglia movimento. La cornice del Mart di Rovereto è una vasca di luce dove le vivaci cromie del pittore sguazzano con palpabile equilibrio. Da un’idea di Vittorio Sgarbi e con la curatela di Denis Isaia, la mostra è in esposizione dal 15 maggio al 18 settembre 2022.
Non so se ad Alex Katz sarebbe piaciuto, ma la sua pittura suscita in me una concatenazione d’immagini. Prima un camino in una sera invernale, poi un muretto a secco in un meriggio estivo, infine un bovindo impregnato di una luce azzurrina nordeuropea. Niente per cui il pittore americano potrebbe risentirsi, beninteso. Ma d’altra parte le sue opere godono di una tale gratuità e immanenza che temo che qualsiasi libera associazione possa incresparne la superficie.
Essa è liscia, pulita, piatta; lasciandoci andare a una sinestesia, invadendo un altro campo sensoriale, potremmo definirla silenziosa, sussurrata, quieta; o ancora, muovendoci nuovamente, distante, solitaria, imperturbabile. Non necessita di sovrastrutture, né pittoriche né concettuali. A Katz non interessa appesantire la tela di materiale; ma nemmeno di figure (se si tratta di paesaggi) o di paesaggi (se si tratta di ritratti). Come, tantomeno, gli interessa allacciare le sue opere a ideologie, a un impegno sociale o politico, a una riflessione esistenziale o filosofica. L’immagine esiste per essere rappresentata. Stop. Libera da impegni e pesi di qualsivoglia natura, l’arte di Alex Katz si crogiola nella sua inutilità.
“Credo che molti trovino difficile accettare che queste cose – l’eleganza e la bellezza – siano arte, vogliono vedere messaggi sociali, sofferenza, espressione interiori, tutte cose per le quali non ho alcun interesse” dice Katz in una celebre intervista del 1998 a David Sylvester. Intenzione programmatica (mai rinnegata) in netta controtendenza con gran parte dei pittori a lui coevi, impegnati a veicolare messaggi sociali o a stimolare riflessioni sul processo pittorico o sulle sue implicazioni filosofiche. Si possono citare in tal senso, in ordine sparso, Espressionismo astratto (da cui Katz si distanzia recuperando la figura in un’epoca ad essa insensibile), Pop Art, Minimalismo, Arte Povera.
Tale reticenza al vincolo contenutistico lo rende forse meno valido di altri pittori? Del resto non racconta una storia, non veicola un messaggio. Le sue opere non hanno una ripercussione. Per i più miopi sono retoriche. Ma d’altra parte denota un forte interesse per la luce, per l’equilibrio formale, per il rapporto tra pieno e vuoto, per la pittura come contemplazione, per l’arte come generatore di immagini.
E non è forse, in fin dei conti, l’essenza di un artista? Di un pittore, per la precisione; di chi registra sulla tela, trasfigurandola, la realtà. Ancor prima che da una ragione, egli è mosso dalla volontà di creare mondi che esteticamente appiano gradevoli – e se possibile diversi dai precedenti. A sintetizzarlo perfettamente è Denis Isaia, che nel catalogo della mostra del Mart di Rovereto – Alex Katz. La vita dolce – si esprime così: “Il disimpegno come strategia è un tentativo di ricondurre il pensiero sulla vita alla vita stessa“.
Per quanto possa risultare stimolante e produrre interessanti riflessioni, l’intellettualismo a Katz proprio non va giù. E lo si nota in tutte le oltre quaranta tele esposte in mostra, pregne di una poesia della vita che guarda agli affetti – su tutti la moglie Ada, ritratta un numero di volte inquantificabile – e i luoghi del cuore – i paesaggi del Maine. Affidandoci ancora alle parole di Isaia, quella di Katz è un’arte “circondariale”, che non ha bisogno di spingersi chissà dove per esprimersi.
La retrospettiva del Mart – la prima in Italia in oltre vent’anni – ne racconta gli esiti facendo affidamento, perlopiù, a tele conservate in collezioni italiane e svizzere. Difatti è proprio in questa zona che negli anni Novanta – grazie alle gallerie di Emilio Mazzoli e Monica de Cardenas (con cui ancora l’artista collabora) – Katz espone (quasi) per la prima volta in Europa. La prima grande retrospettiva istituzionale nel Vecchio Continente, per rendere l’idea, arriverà solo nel 1995 alla Staatliche Kunsthalle di Baden-Baden in Germania.
Già dal titolo – La vita dolce, inversione della Dolce vita di Fellini – si evince quanto riassunto sopra sul meraviglioso disimpegno di Katz. E lo si comprende ancora meglio nella prima sezione dell’esposizione; esposizione che si muove seguendo un ritmo emotivo a fisarmonica: prima leggero e mondano, poi calmo e assorto, infine cromaticamente brillante. Costanti l’andirivieni di ritratti e paesaggi.
Così la mostra si apre con i ritratti femminili, stagliati su panorami monocromi e inconsistenti. I profili delle figure sono leggeri come leggere le loro anime, scosse solo dal tintinnio dei bicchieri a un cocktail newyorkese. Il loro valore si rintraccia nella semplicità delle forme e nei colori vivaci, squillanti come un quadro pop, ma delicati e misurati pur nei loro slanci. Da questi emergono labbra rosse come fragole e sottili come orizzonti; posture eleganti e affettate, fintamente disinvolte, consce dell’eterna messa in scena che è la vita.
Difatti questa è la natura e la sorte di tutte le tele in mostra (ma non solo): paiano semplici, ma celano uno studio delle proporzioni e degli accoppiamenti cromatici che si gioca sui vuoti, sugli intervalli e sulle misteriose corrispondenze. Guardando le betulle stagliarsi – nel loro biancore, sul verde brillante di un bosco irreale – viene da chiedersi se la natura non possa imitare le trame di Katz e abbandonarsi al suo voluttuoso stravolgersi.
Come detto, non si può andare troppo oltre con le interpretazioni, ma quando la mostra si apre ai paesaggi il sentimento di mistero e pace ad essi legati si fa pervasivo. In opere come Beach e Marina la calma è palpabile, viva e partecipe, tanto da poter rintracciare in essi una sotto trama quasi meditativa. Addirittura, a proposito di trama, in Beach si notano alcune impronte che tracciano un percorso. Leggeri segni sulla sabbia che innescano un meccanismo narrativo: vi è appena passato qualcuno? Dove stava andando? A cosa stava pensando?
Nella terza parte di esposizione, la più ampia, ritratti e paesaggi si alternano senza sovrapporsi, consci di essere strumenti di un contenuto apprezzabile ma non afferrabile: la bellezza. Quella pura, assoluta, fine a se stessa. Se la pittura di Katz fosse un giorno della settimana, senza dubbio sarebbe la domenica. Oziosa, contemplativa; forse molle, di certo placida. Eppure necessaria, abbacinante per gli indecifrabili piaceri che dona.
Come un camino in una sera invernale, un muretto a secco in un meriggio estivo, un bovindo impregnato di una luce azzurrina nordeuropea. Niente di essenziale alla vita, ma se non esistessero ne sentiremmo la mancanza. Esattamente come una tela di Katz, proprio come l’arte.