Quando Wayne McGregor iniziò a creare AfteRite era il 2018. Il populismo stava dilagando in tutto il mondo e il Regno Unito si stava staccando dall’Europa. Oggi, momento storico in cui il mondo non si è ancora gettato alle spalle la pandemia, e sullo sfondo di una guerra che ci tocca da vicino, dove si colloca l’individuo, sempre che abbia ancora un posto dove collocarsi? Il coreografo e il suo team creativo si sono interrogati su ciò che si intende per rito ai giorni nostri esplorando ambiti sia naturali sia artificiali.
La scenografia di questa creazione che, dopo aver debuttato al Metropolitan di New York nel 2018, arriva in Italia, insieme a Lore, al Teatro alla Scala (dal 24 giugno al 7 luglio), include una scatola idroponica in cui le piante vengono coltivate senza terra, un sistema che sembra autosufficiente e che invece ha bisogno dell’intervento dei bambini, anime pure, per sopravvivere. C’è indubbiamente una corrispondenza tematica con le Sacre stravinskiano del 1913, il balletto che Nijinsky iniziava con una celebrazione della terra e terminava con un sacrificio.
Nel balletto di McGregor invece pervade l’alienazione. Una comunità in cui solo i bambini fanno da commovente contrappunto all’agitato malessere degli adulti, che vivono a disagio in una primavera tecnologica che non è più quella verde e rigogliosa di una volta. I danzatori si muovono tra le proiezioni di Ravi Deepres, che traggono ispirazioni dalle aride distese del deserto cileno. Lo fanno a ritmo frenetico, scattante, animalesco. Sul loro volto aggressività, gesti secchi e decisi. L’unica umanità sembra trovarsi nella gestualità della Madre, interpretata come fu a New York da Alessandra Ferri.
“Alessandra rappresenta l’Eva mitocondriale, l’antenata da cui tutti discendono. AfteRite aveva bisogno dell’esperienza fisica di Alessandra, della sua età, del suo vissuto” ha detto il coreografo britannico. E infatti nella grande étoile ritroviamo quell’espressività richiesta. A livello tecnico però non si può non elogiare tutta la compagnia scaligera, in cui spiccano i primi ballerini Claudio Coviello e Martina Arduino, sempre più matura nell’arte virtuosa della danza che oramai ha fatto sempre più sua e che le calza a pennello in ogni ruolo che interpreta, dal più classico a quello più contemporaneo, come in questo caso.
Lo spettacolo prosegue con Lore, una prima mondiale creata da McGregor proprio sui ballerini della Compagnia della Scala. Il balletto si avvale della raccolta di frammenti tratti da rituali nuziali della tradizione slava, Les noces di Stravinskij, musica composta dieci anni dopo il suo capolavoro La Sagra. Sono quattro pianoforti, quattro voci, percussioni e coro, a battere il tempo per i ballerini sul palco. Qui il suono è più meccanico e impersonale – un senso della vita umana guidato da un potere esterno. E dietro questo suono, dietro questa pulsione meccanica si muovono i passi creati da McGregor, che vogliono raffigurare il rapporto dell’uomo con la tecnologia, relazione con una nuova natura. Anche in questo caso perfetta l’esecuzione del corpo di ballo scaligero, attento ad ogni imput dettato dal ritmo difficile delle note stravinskiane, ma che non lo lascia mai a disagio, anzi. Ottimi Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko, sempre più affiatati, perfetti, incalzanti, adeguati a un modo di ballare come lo vuole il pensar la danza oggi.
Teatro pieno alla replica del 29 giugno e tanti applausi ai protagonisti, soprattutto ad Alessandra Ferri, ancora tanto amata dal pubblico milanese, che è stato felice di rivederla sulle punte nel 2019 in Woolf Works, una coreografia sempre firmata da McGregor, e lo è adesso di incontrarla nuovamente in questa performance.