Immergersi nel metaverso per indagare l’identità come forma instabile
Alessandro Sambini negli ultimi anni affronta in maniera sistematica il rapporto tra immagine e tecnologia, rifiutando la mera spettacolarizzazione del nuovo che spesso si limita all’epifania della tecnica, ma innescando una serie di interrogativi che oltrepassano la contingenza della cronaca.
Il suo ultimo progetto Tecnocopia, in mostra fino al 7 settembre, su appuntamento, presso lo spazio Adiacenze di Bologna, curato da Andrea Tinterri e Adiacenze in collaborazione con AMaC, collauda questo processo di interazione tra immagine e tecnologia, sviluppando un percorso espositivo in un metaverso realizzato appositamente, in cui lo spettatore è coautore della mostra stessa. Come si legge dal testo critico che accompagna l’esposizione Tecnocopia è un progetto che indaga l’identità come forma instabile, Alessandro Sambini sviluppa un archivio di volti, alcuni creati da un’intelligenza artificiale e altri ricavati da fotografie di volontari, che nel momento della restituzione (la fotocopiatrice funge da dispositivo fotografico) si sostituiscono a quello reale, incrinando la prospettiva del proprio Io.
Al visitatore viene richiesto di indossare un dispositivo Oculus, immergersi nel metaverso e abitare lo spazio in cui si trova accolto. Un’operazione che gli consentirà di attivare una fotocopiatrice ed ottenere una restituzione del proprio volto o di una sua sezione e appenderla alla parete alimentando l’apparato iconografico della sala espositiva. Operazione che cita esplicitamente il progetto Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, realizzato da Franco Vaccari per la Biennale di Venezia nel 1972. Ma in Tecnocopia l’esperienza è individuale come se la scoperta di una nuova identità non fosse condivisibile, fosse un’esperienza necessariamente solitaria e maieutica. In questo modo il gesto si sottrae al rito collettivo della grande esposizione per concentrarsi sull’epifania del volto, una corrispondenza casuale che muta i connotati identificativi e riscrive le regole della rappresentazione.
Riscrittura ulteriormente sollecitata dalla possibilità, nella realtà virtuale, di compenetrazione dei corpi; la fotocopiatrice è un grande dispositivo fotografico che il nostro volto può oltrepassare. Questa interazione riscrive il volto restituito, la superficie non appare regolare ma deformata dalla sovrapposizione tra soggetto e mezzo fotografico, come se quest’ultimo esplorasse una dimensione ulteriore, altrimenti insondabile (sempre dal testo critico del curatore Andrea Tinterri).
Al termine della mostra la sala espositiva (metaverso) con i volti appesi alle pareti rimarrà conservata all’interno del visore, annullando la temporaneità che caratterizza ogni esposizione e trasformando lo spazio in archivio. È ormai cronaca quotidiana la dissertazione sul metaverso e sulle sue possibili implicazioni, economiche e sociali. L’operazione messa in capo da Sambini si trasforma in un’eccezionale documento; un archivio di visitatori / pionieri che devono rinegoziare il rapporto con l’immagine del proprio volto. E la specificità del documento risiede proprio nella sua prospettiva futura, un’esperienza che indaga la nostra identità nel mondo virtuale, in un momento in cui l’ebollizione tecnologica / capitalistica mastica e rimastica ogni sua traccia in tempi inafferrabili.
A differenza di molte esperienze progettuali che insistono sulla tecnologia e che quest’ultima vanifica rendendole obsolete rapidamente, Tecnocopia assume le caratteristiche del testimone, interpellabile in un lontano futuro in cui qualcuno si chiederà come gli umani facessero ad accettare se stessi, senza maledire gli dei cinici e beffardi.
Informazioni sulla mostra
Aperta fino al 7 settembre su appuntamento
Adiacenze, Vicolo Spirito Santo 1/B, Bologna
Per prenotare la visita: info@adiacenze.it – 3661194487