Print Friendly and PDF

Musei: perché non creare App per far guadagnare la cultura?

Le app sinora realizzate sono soprattutto riferite al Museo e ai suoi contenuti. Perché non realizzare App che non abbiano un contenuto culturale, ma siano destinate a raccogliere, attraverso i proventi della pubblicità, fondi da destinare ad iniziative e/o istituzioni culturali?

Qualunque sia l’interlocutore di riferimento, le relazioni che collegano “cultura” e “altri settori” si fondano sempre su quello che potremmo definire un assioma, una constatazione o, più semplicemente, un pregiudizio: che si tratti di politica o di tecnologia, la cultura ha la necessità di manifestarsi come “contenuto”.

Pur essendo tale condizione utile e fondata in tantissime circostanze, ritenere aprioristicamente che questo debba essere sempre vero è limitante.

Si prenda ad esempio il caso, un po’ paradossale, delle sperimentazioni museali in ambito tecnologico: al di là del colossale ritardo, l’utilizzo della tecnologia da parte dei Musei è più o meno standardizzato: dapprima il sito web, poi i canali social, infine le app per cellulari presentano tutte un contenuto più o meno standard e, in alcuni pochi casi, una struttura principalmente incentrata sulla dinamica della “comunicazione”.

Basta fare un giro su qualsiasi store: esistono innumerevoli declinazioni possibili del concetto di “app”, eppure i Musei, utilizzano pressoché uno o due di tali declinazioni, trasformando in “tentativo ardimentoso” l’applicazione di un modello freemium.

Come se esistesse una regola non scritta che obbliga i Musei a fare app Museali, rinunciando invece al bagaglio di opportunità che superare questo limite invisibile-invalicabile potrebbe offrire.

Si potrebbe, ad esempio, immaginare il Museo come produttore di una App in stile gaming, non di tipo narrativo-culturale, ma di tipo action, senza alcuna velleità intellettuale. Una app ben strutturata, con una grafica realizzata da artisti digitali e da professionisti esperti, un game-play emozionante, e nessuna “pubblicità progresso”.

Insomma, una App che ambisca a divenire una App di successo, quelle con milioni di download per intenderci.

La realizzazione di una App del genere potrebbe essere finanziata e/o co-finanziata da soggetti privati, che sarebbero ben lieti di avvalersi delle connessioni e delle professionalità artistiche digitali che un Museo riesce a raccogliere, nel caso in cui, tale App, non sia un mero servizio aggiuntivo, ma rappresenti un prodotto con autonoma dignità.

Le opportunità che deriverebbero da un’operazione di questo tipo sarebbero molteplici: in primo luogo il Museo svolgerebbe (davvero) un’azione di aggregazione di talenti digitali, incrementando il proprio ruolo all’interno dei flussi culturali contemporanei. In secondo luogo il Museo potrebbe beneficiarne attraverso gli introiti pubblicitari derivanti dal download delle App. Questi ricavi aggiuntivi verrebbero quindi destinati al Museo, che implementerebbe quindi una strategia di diversificazione, con un consequenziale incremento del livello di autofinanziamento.

Ancora, il Museo potrebbe “uscire” dalla propria autoreferenzialità, ricordandosi che tale azione non sarebbe affatto un atto rivoluzionario, ma semplicemente un adeguamento ad alcune pratiche internazionali. Pratiche che, contrariamente a quanto si possa pensare, hanno un valore sì commerciale, ma in primo luogo culturale.

A certi livelli, infatti, la realizzazione di una app può essere paragonata in tutto e per tutto ad un’arte applicata, quantomeno per le dimensioni grafiche: una versione digitale di quelle “arti applicate” per vedere le quali tantissimi visitatori si recano al Victoria&Albert Museum.

Il V&A, ad esempio, attraverso una propria controllata progetta e produce oggetti di design, in parte collegati alle proprie collezioni (merchandising), in parte dotati di identità propria. 

Proprio come il V&A, quindi, i nostri Musei potrebbero divenire protagonisti di produzioni culturali interessanti, sperimentando partnership e collaborazioni anche al di fuori della propria zona di comfort.

Condizione che, senza ombra di dubbio, permetterebbe di sviluppare competenze ed esperienze che nessun corso di formazione potrebbe mai garantire.

Commenta con Facebook