
La storia prende spunto da un reale fatto di cronaca nera accaduto in Francia nel 2016, quando Fabienne Kabou, giovane donna senegalese, affogò sulla spiaggia di Berck, vicino Calais, la figlia di 15 mesi, dichiarandosi poi colpevole del fatto. Diop riprende la vicenda mettendo in scena il processo intentato per stabilire l’eventuale infermità mentale della donna. Il vero processo, svoltosi a Saint-Omer, sempre nei pressi di Calais, venne seguito da Diop che ricorda in proposito:
La donna ha iniziato a raccontare alla Corte il delitto, descrivendolo nei minimi dettagli: come fossero uscite dopo la colazione, come l’avesse addormentata e cullata, come l’avesse lasciata sulla sabbia in balia dell’alta marea. Tornata a casa, ho rivisto la Medea di Pasolini, mi sono domandata se la donna stesse citando volutamente il film. Per quello l’ho inserito nel mio”.
La ricostruzione del processo
Diop affida la sua ricostruzione del processo a un cast prevalentemente femminile: la madre infanticida nel film prende il nome di Laurence Coly (Guslagie Malanda), mentre la protagonista del film è Rama (Kayije Kagame), accademica e scrittrice che segue il processo per trarne una rivisitazione del mito di Medea in chiave contemporanea. La scelta più coraggiosa della regista nell’approcciarsi al film è stata la fissità con cui la sua macchina da presa indugia sulle varie testimonianze e gli interventi che si alternano lungo il processo.
Questo, inaspettatamente, piuttosto che appesantire la narrazione, tiene sempre alta l’attenzione, anche grazie alla recitazione di Malanda. Il suo personaggio è quello di una donna venuta dal Senegal per studiare filosofia a Parigi. Tuttavia, la sua integrazione nella società francese, a differenza di quella di Rama, non è andata a buon fine. Inquietante la bravura di Malanda nell’interpretare il distacco dimostrato da Laurence mentre racconta il proprio efferato crimine. Per più di un’ora la osserviamo attraverso gli occhi di Rama, quando, tutto a un tratto, è Laurence che rivolge il suo sguardo verso di noi, aprendosi in un sorriso da far raggelare il sangue nelle vene.

Uno sguardo oggettivo
Prendendo spunto dalla sua attività documentaristica, Diop sembra volersi porre al di sopra della sentenza che il tribunale è chiamato ad emettere: la sua è una visione oggettiva, nel tentativo di raccontare il tema della maternità, tra luci e ombre, senza necessariamente esprimere un giudizio. Quando Laurence invoca la stregoneria quale possibile spiegazione per le sue azioni, emerge evidente il contrasto tra due culture. Quella africana e quella europea, diverse e in parte inconciliabili. Come Rama, più il processo va avanti e più ci troviamo spaesati. In bilico tra pietà e orrore davanti alle parole così lucide e calibrate di Laurence. La sua è una storia di alienazione. Dopo aver tentato di elevare la sua condizione sociale venendo a studiare in Europa, si ritrova priva di tutto, anche del più elementare contatto con la realtà che la circonda.
Saint Omer non è un film dai grandi colpi di scena, rifugge facili sentimentalismi e non ricerca una verità assoluta. La sua potenza si può raccontare con le stesse parole che usa la regista francese per descrivere il cinema di Pasolini:
In Medea, con la sua messa in scena essenziale, ha saputo andare oltre alla violenza dell’atto, ha riportato quella figura epica alla nostra contemporaneità”.
Proprio questi elementi contribuiscono a fare di Saint Omer uno dei film più inaspettatamente espressivi tra quelli fin qui visti in concorso alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.