Bones and All, il nuovo film di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet e Taylor Russell. Dal 23 novembre al cinema
All’apparenza, Maren (Taylor Russell) è un’adolescente come tutte le altre. Si è appena trasferita in una nuova città col padre e sta cercando di ambientarsi, stringendo amicizie con le sue compagne di scuola. Una delle prime scene di Bones and All, il nuovo film di Luca Guadagnino, è ambientata in un innocuo pigiama party tra ragazze. Maren, sdraiata sotto il tavolo di vetro con un’amica, sembra scivolare gradualmente in uno stato di abbandono quasi estatico: quando l’amica le chiede un parere sul suo smalto, Maren le prende la mano e comincia a succhiarle il dito. Quando la ragazza comincia a urlare è ormai troppo tardi: il suo dito è interamente maciullato. Terrorizzata e confusa dalle sue stesse azioni, Maren torna a casa imbrattata di sangue, per poi essere immediatamente caricata in macchina dal padre verso una nuova città. Quando si risveglia, scopre che suo padre se ne è andato, lasciandole delle cassette che, nel corso del film, riveleranno tanto a lei quanto allo spettatore le peculiarità della sua condizione: è una cannibale (eater), periodicamente invasa dal bisogno insaziabile di carne umana. La sua è una condizione genetica, ereditata dalla madre che non ha mai conosciuto e di cui il padre non le ha mai parlato. Ormai abbandonata a sé stessa, Maren si imbarca in un viaggio attraverso il Midwest alla ricerca di sua madre, sperando che possa darle le risposte che cerca.
Premiato a Venezia con il Leone d’argento per la regia, Bones and All è il film più americano di Luca Guadagnino, non solo per l’ambientazione ma anche per i suoi tropi. Un primo esempio lampante è il tema del viaggio, che struttura la narrazione e pone il film sulla scia degli innumerevoli road movie su giovani sperduti e confusi, La rabbia giovane (1973) di Malick in primis. Nel corso della storia, Maren si sposta da uno stato all’altro, dalla Virginia al Maryland passando per il Maryland, l’Ohio e il Kentucky. Quale che sia il posizionamento geografico, una cosa rimane immutabile: il contrasto tra il milieu urbano rigidamente conformista (siamo nell’America di Reagan) e la natura incontaminata, spazio di libertà e possibilità, contenente la promessa di una rinascita. Anche questo della wilderness come luogo di abbattimento delle barriere sociali è un concetto tipicamente americano; come lo è del resto la figura del giovane outsider arrabbiato e incompreso, contemporaneamente disgustato dall’andamento del mondo e desideroso di farne parte, a modo proprio. In questo caso gli outsider sono due: nel corso del suo cammino, Maren fa la conoscenza di Lee (Timothée Chalamet), un altro eater solitario. La loro storia d’amore si snoda lungo una serie di tappe, in cui fanno la conoscenza di altri cannibali (tra cui spicca un terrificante Mark Rylance), ciascuno dei quali ha escogitato una maniera personale di vivere la loro condizione.
Nelle interviste, Guadagnino si è rifiutato di accostare il cannibalismo dei protagonisti al concetto di queerness, eppure è il film stesso, in un certo senso, a suggerire questa interpretazione, a partire dalla forte componente erotica che sembra caratterizzare il desiderio cannibalistico degli eaters. Non solo il rapporto conflittuale di Lee con il proprio “bisogno” rispecchia la sua incapacità di affrontare schiettamente la sua bisessualità; tutta la traiettoria di Maren, costellata da incontri con individui che spera possano esserle da guida, rispecchia il percorso di svariati protagonisti queer della letteratura americana e non, giovani smarriti in cerca di figure esemplari che possano indicare una strada o un modello di vita. Si tratta spesso di giovani pronti a rifiutare i valori di una società escludente ma desiderosi di fondarne di nuovi, non di rinunciarvi a priori. Lo stesso accade con Maren, che impara ad accettare la sua natura ma è decisa, senza sapere come, a viverla secondo le sue regole, senza recare danno agli altri – a differenza di Lee, che non si fa scrupoli a uccidere. Al di là del sottotesto queer, comunque, il cannibalismo dei protagonisti è chiaramente un simbolo generico di quel senso di alterità ed estraneità che, a un certo punto dell’adolescenza, colpisce chiunque; quel momento in cui ci si rende conto che il mondo è ingiusto e che i modelli delle generazioni precedenti non bastano più, e allora non rimane che il futuro con tutte le sue incertezze, i suoi dubbi, e i suoi interrogativi.
Bones and All è moltissime cose: un road movie, un horror, un coming-of-age movie e altro ancora, ma soprattutto è una storia d’amore. Indipendentemente dal significato che gli si voglia attribuire, il cannibalismo resta fondamentalmente un pretesto per creare una situazione di avversità, i contorni della tragedia al cui centro stanno Maren e Lee. Malgrado tutto l’orrore, si tratta probabilmente del film più dolce, più tenero della carriera di Guadagnino.
I toni malinconici e autunnali della fotografia di Arseni Khachaturan e la delicata colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross avvolgono i giovani amanti in un alone di romanticismo così tipicamente (e forse stucchevolmente) young adult da risultare sorprendente, per un regista come Guadagnino. Eppure questo ingenuo romanticismo, che fa il paio con la premessa quasi ridicola, è esattamente il punto di forza di un film che commuove proprio in virtù della sua appassionata solidarietà verso i suoi due protagonista. Ovviamente, il successo del film sarebbe impensabile senza le splendide prove attoriali che vi stanno al centro. Chalamet regala la sua migliore interpretazione dai tempi di Chiamami col tuo nome, in perfetto equilibrio tra strafottenza e vulnerabilità. Ma la vera star del film è Russell (Premio Marcello Mastroianni a Venezia per la sua interpretazione), capace di tenere sotto controllo i potenziali eccessi dell’opera e assicurandosi che l’aspetto umano ed emotivo rimanga sempre, saldamente in primo piano: è una performance che non si dimentica facilmente.