Cosa s’intende per scultura oggi? Come la tecnologia ha cambiato il mestiere di scultore? Dove si formano e quali sbocchi hanno gli scultori contemporanei? In una parola, nell’epoca dell’antipolica e dell’antimateria, la scultura è viva o morta? Questa nuova rubrica di ArtsLife prova a rispondere a queste domande attraverso le voci di alcuni tra i più interessanti scultori italiani, dagli “scultori-scultori” ai ceramisti, dalle contaminazioni al dialogo con l’architettura e l’urbanistica, sino alla reinterpretazione dei linguaggi della tradizione.
Quando la ragione dorme, come suggerisce una famosa incisione di Goya, i mostri ballano. E tuttavia, se la ragione non dormisse, il mondo sarebbe più povero. Non conosceremmo una quantità di creature fantastiche che, fortunatamente, da trent’anni a questa parte, Dario Ghibaudo colleziona nel suo Museo di Storia Innaturale: una raccolta virtuale composta da tante sale espositive quanti sono i cicli dell’artista. Ne abbiamo discusso con Ghibaudo in questa prima puntata di Progetto (s)cultura.
Perché un museo, e non semplicemente una collezione, di “storia innaturale”? La tua raccolta di opere è una tassonomia, una catalogazione scientifica a scopo didascalico, o è piuttosto un’irrisione della scienza, della sua incapacità di comprendere il reale?
«In fondo si è trattato di un’esigenza, sono profondamente eclettico e dunque sentivo il bisogno di un contenitore, un luogo virtuale nel quale poter, di volta in volta, depositare le idee. Rousseau mi ha suggerito la soluzione. “È innaturale tutto ciò che viene educato dall’uomo”. Perfetto! La riflessione bene si adattava al mio “naturale” percorso. Ogni mostra è divenuta una stanza vuota del progetto Museo di Storia Innaturale da riempire con una serie di nuovi lavori. Servendomi dell’ironia, strumento a me assolutamente congeniale, posso canzonare un poco anche la scienza; d’altronde, tutto il mio lavoro ha una vaga connotazione scientifica che ruota intorno all’uomo e al suo divenire. Noi umani siamo incredibili sperimentatori ma spesso, un po’ troppo egocentrici e superbi. I miei primi lavori sulle mutazioni risalgono al ‘93. Avevo letto resoconti e visto immagini sui test atomici fatti, sull’atollo di Mururoa, dai francesi. Gli scarafaggi sopravvissero ma mutarono in maniera evidente, il loro dorso divenne straordinariamente asimmetrico mentre i topi, tendenzialmente, divennero anfibi. Per quanto riguarda l’uomo, a migliaia di chilometri in Polinesia i casi di tumore si moltiplicarono. Su queste riflessioni è nata la Sala IV Entomologia. Insetti sovradimensionati e mutati».
Nell’arte e nella letteratura, la metamorfosi è spesso una narrazione simbolica del cammino dell’uomo: dalla materia allo spirito, dalle tenebre alla luce. Sbaglio o nelle tue opere la direzione è invertita?
«Non sbagli, possiamo vederla anche così. La metamorfosi narra e fa sognare, le mie sculture vorrebbero dire: se a governare siamo noi e apparentemente siamo noi, non possiamo pensare di gestire in toto, per lo meno non ancora, il pianeta, che è un affare più grande di noi».
Il tuo museo – o mausoleo – virtuale si è costruito stanza dopo stanza, in decenni di lavoro: hai seguito un progetto o ti sei affidato al caso?
«Di certo non riesco a pensare ad una gigantesca tomba; il Museo di Storia Innaturale è un contenitore nelle cui sale, virtuali ma reali, realizzo, di volta in volta, un singolo progetto. Vi sono sale di Antropologia, Botanica, Etnografia, Pesci e Anfibi, Etologia, Creature meravigliose, ecc. Attualmente sono ventiquattro».
A quali modelli ti ispiri? I bestiari medioevali, i grilli di Bosch e gli incubi dei surrealisti influenzano i tuoi immaginari?
«Da qualche anno in effetti sono attratto dalla scultura classica con rimandi medievali, gli strani animali che abitano le ultime sale hanno origini a cavallo tra il periodo ellenico, romano, il medioevo, il gotico, un pizzico di rinascimento e la pulizia un po’ stucchevole del neoclassico. Shakerare per bene e bere lentamente. In tutto questo, una nota: pressoché tutte le creature hanno la coda di pesce, suggerendo il percorso evolutivo più breve: nasciamo dall’acqua e poi prendiamo possesso delle terre emerse, sotto varie vesti o pellicce».
Le tue sculture da viaggio mi ricordano Duchamp…
«Sicuramente nella maniglia».
Uno degli ultimi progetti di Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, sembra ispirato al tuo museo: se avessi girato anche tu un mokumentary, avresti potuto citarlo per plagio…
«Accidenti a lui, grandissimo… mi ha un po’ “rubato” il progetto ma, come si dice…ubi major minor cessat».
Quale ruolo ha la scultura oggi – a cominciare dalla tua – nell’epoca di Hollywood, del Metaverso e della rivoluzione digitale?
«Se parliamo di scultura il suo ruolo è lo stesso di sempre. Solo, io credo che in certi casi andrebbero trovati nuovi termini per definirla. Per esempio si potrebbe parlare di “oggetto tridimensionale”. La scultura, soprattutto se di pietra o marmo, è togliere, lo scalpellino o la macchina toglie e sbozza ma poi è l’artista che interviene, la vita viene data alla materia dallo spirito e dal talento; se l’opera è realizzata interamente da una macchina e rifinita da operai specializzati, l’artista non so dove si colloca e, di conseguenza, non capisco quale ruolo rivesta».
Cosa pensi del panorama della scultura italiana contemporanea?
«Confesso di non avere le idee ben chiare a questo proposito. Guardo il lavoro dei giovani artisti ma continuo ad amare le opere di Parmiggiani o Penone, di Sassolino o Bertozzi e Casoni, loro mi emozionano sempre».
“La scultura”, hai dichiarato, “nasce dall’errore”. Che cosa vuol dire? Come procedi, nel creare un’opera, dall’idea, al primo abbozzo, alla realizzazione finale?
«Il fatto è che dal bozzetto alla realizzazione, in corso d’opera, le cose spesso cambiano: rivedi le proporzioni, modifichi, guardi il lavoro nel suo insieme, solitamente molto più grande. Parti che nel bozzetto funzionavano non vanno più bene, un errore di pochi millimetri, quando lo porti in grande può risultare inaccettabile, non funziona e devi modificare. Ho lavorato molto con l’argilla e la porcellana, poi ho privilegiato il cemento armato, polvere di marmo bianco, cemento, calce e resina acrilica a sostituire l’acqua; ne risulta un impasto che viene prima modellato su di un’armatura di ferro, poi scolpito e infine levigato, ma gli ultimi lavori sono realizzati in plastica riciclata, sgrossati con una stampante 3D e poi modificati e rifiniti».
Quanto ti lasci condizionare dai suggerimenti della materia?
«Partiamo dal presupposto che la materia, qualsiasi materia è di per sé viva anche se inanimata; ovvio dunque che suggerisce, indirizza e guida. Solitamente è un po’ selvatica e devi metterci del tuo per domarla ma questo è il bello della scultura».
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
«Al guardare i cantieri attraverso un buco della recinzione. Scherzo, odio star fermo, sto terminando una serie di grandi inchiostri ispirati a delle formelle di argilla realizzate un paio di anni fa».