Il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ospita Diario dal fronte, retrospettiva che ripercorre la carriera di Livio Senigalliesi (Milano, 1956). Fotoreporter tra i più apprezzati a livello internazionale che, in circa 30 anni di lavoro, ha raccontato 25 conflitti in tutto il mondo. Dal 25 novembre 2022 all’8 gennaio 2023.
L’essenza della guerra è l’orrore. Lo sappiamo tutti, è vero. Ma c’è una differenza profonda dal saperlo al conoscerlo, nel pieno senso di una presa di coscienza che è questione diversa dalla percezione, vaga o sentita che sia. E se tale consapevolezza è totale solo nel momento in cui la guerra la si vive, per davvero, chi intende approfondire la sua dimensione infernale dovrebbe guardare alle fotografie di Livio Senigalliesi. Fotoreporter milanese che da dietro l’obiettivo della sua macchina fotografica ha documentato 25 conflitti in circa 30 anni di lavoro. Ora 50 dei suoi scatti sono in mostra al Museo Diocesano di Milano.
Dal Medio Oriente al Kurdistan, dal Kuwait all’Unione Sovietica, dall’Africa alla Jugoslavia. Senigalliesi non ha certo speso una carriera nelle nefandezze della guerra alla ricerca del bello. Al contrario si è mosso con tremante coraggio – «nel mezzo di un bombardamento mi ripetevo “ora vado, scatto e poi scappo”» racconta l’autore, ancora oggi emotivamente coinvolto da ciò che ha vissuto – in contesti terribili, alla ricerca di una testimonianza attenta, imparziale, vera. Del resto in uno scontro bellico, dove la verità è costantemente inquinata dalla propaganda, essere sul posto, vedere e fotografare direttamente, era e rimane l’unico mezzo per trasformare le interpretazioni in fatti. Almeno nei limiti dell’umano possibile.
Anche se, ad osservare le storie immortalate nei suoi scatti, non paiono esserci né limiti né umanità. Carrarmati che passeggiano su soldati ormai arresi, cittadini bosniaci che incendiano la casa del vicino perché la moglie è musulmana, malati psichiatrici lasciati a nutrirsi di erba nei manicomi, selve di teschi ammucchiati in un macabro santuario in Congo, vetri di auto forati da proiettili diretti proprio verso Senigalliesi. Le vicende a cui ha assistito e che ha rappresentato, collaborando con le più importanti testate del mondo, indicano come la guerra si prenda ogni aspetto dell’esistenza. Non solo grandi battaglie e passaggi storici, ma anche una quotidianità disperata e angosciosa.
É proprio in questa che Senigalliesi si è integrato, entrando di volta in volta nel tessuto sociale del paese in questione. L’autore ben evidenzia come l’importanza di questi scatti non risieda unicamente nell’immagine finale, quanto più negli sforzi fatti per ottenerla. Nel decalogo personale del fotoreporter ci sono, per esempio, dei passaggi necessari per svolgere al meglio questo lavoro. Cercando ovviamente di rimanere in vita. Tra questi troviamo:
- Conoscere la struttura urbanistica della città o del luogo scenario di guerra. Visitarlo, se possibile, prima che il conflitto sia fuori controllo. Scoprirne ogni dettaglio, anche quelli più nascosti.
- Imparare la lingua. Per leggere i cartelli, comprendere i messaggi divulgati e soprattutto comunicare con popolazione ed esercito.
- Integrarsi nella comunità. A partire dall’inserimento in un contesto familiare. Senigalliesi stesso racconta di questo modus operandi: vivere sofferenze, fame e disgrazie con una famiglia, supportarla e aiutarla nel corso del conflitto, non solo contribuisce a comprenderne appieno la portata, ma soprattutto è propedeutico a ottenere la fiducia delle persone. Stare dentro la vita delle persone afflitte. E da qui i loro racconti, le loro opinioni, i dettagli che uno straniero ignora, i suggerimenti altrimenti irreperibili, le loro piccole grandi storie di umanità e resistenza. In termini utilitaristici, se vogliamo così intenderli, la possibilità di essere sempre sul luogo dove accadono le cose o di avere la possibilità, grazie alla complicità della comunità, di raggiungerlo in tempi brevi.
- Allenare i sensi alla prudenza, accettare la paura come alleata senza lasciarsi sopraffare.
- Conoscere le strategie militari, comprendere ciò che sta accadendo in preciso momento e prevedere quel che accadrà da lì a poco.
In mostra troviamo in particolare una selezione di scatti che documentano gli effetti collaterali che la guerra ha su un territorio e la sua popolazione. In tal senso è significativo l’approfondimento dedicato al Vietnam dove, ripercorrendo il ‘sentiero di Ho Chi Minh’, Senigalliesi ha riportato gli effetti sulle popolazioni locali dell’Agent Orange, il defoliante alla diossina nebulizzato dall’aeronautica statunitense sulle zone di foresta dove si annidavano i Vietcong.
«Sono inquadrature vere, scomode – racconta la curatrice Barbara Silbe – dove l’estetica passa in secondo piano rispetto al messaggio, per alimentare in noi la memeoria e una coscienza critica contro l’odio che si ripete a ogni latitudine». Lo conferma anche la direttrice del Diocesano Nadia Righi, la quale sottolinea come le fotgrafie in mostra «non spiegano i fatti, nè danno risposte, ma sollecitano profondi interrogativi».
E proprio in questi aspetti sembra risiedere il significato ultimo della mostra. Non un compendio esaustivo sulle guerre raccontate, ma una panoramica sull’orrore della guerra, comune ad ogni tempo e luogo. Una macabra carrellata che rimembra come tale orrore non si sia mai interrotto, che tanti conflitti sono contemporaneamente e perennemente in atto. Ben prima del più mediaticamente coperto scontro russo-ucraino. Accanto a questo, si augurano autore e organizzatori, lo stimolo ad approfondire le guerre passate e quelle presenti. Nella mai esaurita speranza di prevenire quelli futuri.