Al primo posto il collettivo artistico e curatoriale ruangrupa. Secondo posto per l’italiana Cecilia Alemani, curatrice della Biennale di Venezia 2022. Cosa ci dicono queste (e le altre) scelte sul sistema dell’arte contemporanea?
É difficile rendersi conto dei cambiamenti nel momento in cui si stanno verificando. Spesso è più facile analizzarli a posteriori, quando i loro effetti si sono già manifestati e la loro reale portata è pienamente svelata. Ma d’altra parte rimanere al passo col presente è una necessità per chi vuole comprenderlo, e non subirlo. Il mondo dell’arte, che d’altronde si porta dietro un buon bagaglio di mondi collaterali, dall’economia alla sociologia, non fa eccezione. Per decifralo, dal 2002 ci si avvale di uno strumento unico: l’ArtReview’s Power 100. Si tratta della classifica annuale più consolidata e diffusa nel mondo dell’arte contemporanea. ERC-721, a rappresentanza degli NFT, era in cima alla lista nel 2021, Black Lives Matter nel 2020 e il direttore del MoMA Glenn D. Lowry nel 2019. E nel 2022?
Nel 2022 i cima alla lista troviamo il collettivo indonesiano ruangrupa. Fondato da un gruppo di artisti a Jakarta nel 2000, ruangrupa nel 2022 ha curato la quinquennale Documenta a Kassel (dove li abbiamo intervistati), forse l’esposizione più importante del calendario globale dell’arte contemporanea. É la prima volta che a occuparsene è un collettivo ed è la prima volta che a farlo è un profilo (in questo caso profili) proveniente dall’Asia. Una doppia prima volta piuttosto indicativa, che racconta di come il mondo dell’arte sta uscendo dai confini occidentali e individualistici per aprirsi a una dimensione globale e partecipativa.
Questo non significa necessariamente che ci troviamo di fronte a una svolta democratica, dove chiunque può avere facile accesso a un sistema notoriamente chiuso. D’altra parte se l’arte si sta muovendo ad est è perché da lì – Cina, Singapore, Hong Kong – provengono freschi e importanti capitali. Tanto che le maggiori case d’asta al mondo – Christie’s, Sotheby’s e Phillips – hanno aperto o stanno aprendo nuovi avamposti da quelle parti. Dunque si tratta pur sempre di necessità, ma nel frattempo i confini si stanno allargando e tanto un male non può essere.
Al contrario ha una connotazione più rivoluzionaria, ed è proprio su questo che si fonda il successo di ruangrupa, lo spirito collettivo portato avanti dal gruppo. In netto contrasto con il modello individualista, a tratti narcisista, dell’artista-genio-demiurgo-imprenditore che si è consolidato soprattutto in Occidente, ruangrupa crede in un approccio open source alla creazione artistica. Ovvero nel lavoro partecipato all’opera, che non si configura più come emanazione di un individuo, ma compartecipazione di più soggettività. Una prospettiva che pone dunque il networking e le relazioni come anticamera della creazione. Ciò privilegia la costruzione di comunità piuttosto che di reputazioni individuali.
Aspetto tutt’altro che da sottovalutare in un contesto in cui il divismo degli artisti fa da altare alle loro opere. Ne sono un caso lampante (e contemporaneo) Damien Hirst e Jeff Koons; ma in fondo anche di Van Gogh, che pure ha vissuto lontanissimo da qualsiasi forma di riflettore, oggi ne viene esaltata la personalità e l’esistenza come chiave di lettura della sua opera. Non che sia totalmente sbagliato o ingiusto, ma ben evidenzia il meccanismo che ruangrupa cerca di scardinare. E in occasione di Domumenta lo ha ben dimostrato, coinvolgendo nel complesso più di 1500 artisti. Tutti ben disposti ad anteporre il progetto collettivo alle loro individualità. Evidente quindi la carica sociale e politica di tale scelta, che si è poi ovviamente ripercossa anche sui temi trattati in esposizione.
Di stampo diverso, ma per certi versi simili, l’impronta che Cecilia Alemani (al secondo posto della classifica) ha posto sulla Biennale di Venezia. Non a caso un’altra esposizione dalla natura ricorrente, proprio come Documenta, e proprio come insieme a Documenta uno degli appuntamenti di riferimento assoluto per il sistema. La curatrice italiana ha operato scelte di rottura, avvolgendole in una confezione che fosse la più confortante (e comprensibile) per tutti.
Il riferimento è alla massiccia partecipazione di artiste donne o non binaria (solo 22 uomini su 213 partecipanti), che intende sia riscrivere la storia (quante donne, in quanto tali, sono rimaste ignorate o sottovalutate?) che fornire un’indicazione sociale sul presente. Scelte importanti, da alcuni giudicate troppo accondiscendenti verso le istanze gender contemporanee. Ma del resto, guardandoci indietro tra vent’anni, non ci saremmo altrimenti sorpresi nel vedere che la Biennale di Venezia, istituzione che ricopre una funzione di testimonianza e valorizzazione del presente, avesse ignorato una tematica tanto importante dei nostri tempi? E forse, dopotutto, se ha suscitato tante critiche è perché la questione, al contrario di quanto sostengono le critiche stesse, non è poi così accettata e normalizzata.
Anche per questo Alemani (opinione del tutto personale) ha scelto come sotto trama dell’esposizione il Surrealismo. L’inconscio, il represso, il sogno, il desiderio, il misterioso. Ganci antichi, che affondano nel ‘900 e arrivano fino a noi quasi intatti, con tutto il loro fascino ancora carico di magnetismo. Un argomento, per così dire, facile, in cui tutti, visitatori e addetti ai lavori, potessero ritrovarcisi senza troppe sovrastrutture. O meglio, con determinate sovrastrutture già del tutto assimilate.
Al terzo posto, a sottolineare quanto detto per runagrupa, troviamo un altro collettivo. O meglio, più collettivi. Ovvero le unioni sindacali di artisti e lavoratori culturali che in ogni parte del mondo stanno nascendo. L’obiettivo è, ovviamente, di proteggere e far valere i propri diritti. La prima artista singola presente in classifica è Hito Steyerl (4), nota per i suoi lavori ma soprattutto per il suo impegno politico. Lo stesso che ha contraddistinto la fotografa Nan Goldin (8), che si è battuta in particolare su questioni legate all’etica nel mecenatismo. Con una critica particolare alla famiglia Sackler, strettamente legata ai produttori di oppioidi Purdue Pharma. Un lavoro simile a quello del collettivo Forensic Architecture (25), che continua a espandere il ruolo che l’arte ha nella società approfondendo questioni legate a crimini sociali e ambientali; gli artisti Zanele Muholi (28) e Ibrahim Mahama (47) e il collettivo blaxTARLINES (98, che conta Mahama come membro) hanno usato la loro influenza per rafforzare l’infrastruttura di base rispettivamente in Sudafrica e Ghana.
All’architetto David Adjaye (78) viene riconosciuto un lavoro che eccede la mera costruzione di uno spazio, quant opiù la realizzazione di edifici – in questo caso museali – capaci di (ri)costruire identità etniche oppresse o dimenticate. Il poeta Fred Moten (5) e l’accademico Saidiya Hartman (38) hanno ispirato una generazione di artisti nell’approfondire questioni razziali. Come anche le artiste Simone Leigh (7, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2022) e Sonia Boyce (33), che si uniscono a Carrie Mae Weems (22) e Otobong Nkanga (81) nella classifica. In qualità di presidente della Ford Foundation, Darren Walker (10) dirige un’organizzazione filantropica impegnando ingenti risorse finanziarie nei programmi di giustizia sociale del mondo dell’arte.
Evidente, ed interessante, il criterio con cui la lista è stata stilata. L’arte – declinata nelle persone che la rappresentano – assume tanto più valore quanto più ampia è la sua capacità di intercettare e influenzare altri aspetti della realtà. Una prospettiva che sottolinea una volta di più la capacità – ma anche la necessità – dell’arte di unirsi a qualcosa d’altro, di cercare riferimenti, costruire reti e relazioni. Per amplificarsi, per trovare supporto, una spalla tramite cui legittimarsi. Ma anche per supportare e legittimare a sua volta. Il valore cruciale su cui si base la classifica, e che forse ci indica una modalità di valutazione critica dell’arte è questo: la capacità dei suoi cambiamenti di registrare e influenzare altri cambiamenti.