Artemisia Gentileschi è in mostra alle Gallerie d’Italia di Napoli, in un numero anche maggiore di quel che si pensava. I curatori dell’esposizione, Giuseppe Porzio e Antonio Ernesto Denunzio, hanno infatti dato piena attribuzione a quattro opere in prestito da collezioni pubbliche e private negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Si amplia così il numero di opere conosciute di Artemisia Gentileschi, che salgono a 65. E soprattutto alimenta il dibattito sulla quantità di opere potenzialmente attribuibili all’artista del XVII secolo, che a lungo a collaborato con varie botteghe, soprattutto a Napoli, sopraintendendo alla realizzazione di diverse opere.
Tema che del resto è al centro della mostra napoletana, che esplora le collaborazioni dell’artista con artisti quali Bernardo Cavallino, Micco Spadaro (detto anche Domenico Gargiulo) e Onofrio Palumbo. Più in generale il focus si indirizza alle produzioni a cui ha lavorato tra il 1630 e il 1654. Su alcune di loro la sua impronta è però così marcata da assorbirne l’attribuzione.
Tra queste il Trionfo di Galatea (1650 circa) è in prestito dalla National Gallery of Art (NGA) di Washington, DC. Il museo americano l’attribuiva a Cavallino, ma Porzio sostiene che “si tratta di un’opera di Artemisia realizzata con l’ampia partecipazione di Bernardo Cavallino. La didascalia [nella mostra di Napoli] cita solo il nome di Artemisia, in quanto riteniamo che sia lei la titolare della commissione e l’ideatrice della composizione”, aggiungendo che “nella scheda di catalogo è chiaramente scritta la questione della collaborazione tra i due artisti“. Ovviamente tale attribuzione non si intende definitiva (tanto che alcuni esperti, come Nicola Spinosa, propendono per la totale autografia di Cavallino. Ma di certo riapre la questione, soprattutto alla luce dell’iconografia, l’ideazione e la monumentalità riconducibili a Gentileschi. L’NGA ora pensa di porre la doppia attribuzione.
Un altro dipinto che ha subito la stessa sorte è Susanna e i vecchioni (1652), proveniente da una collezione privata londinese, in passato è stato attribuito anche al solo Cavallino. L’opera, che è passata in asta da Sotheby’s a New York a gennaio, è stata ora attribuita a Gentileschi. La stessa Sotheby’s, nel catalogo di vendita, indicava come all’artista fosse da ricondurre il disegno e la concezione generale, nonché delle principali figure femminili nude. Secondo Spinosa, addirittura tutte le figure sarebbero state realizzate da Artemisia.
Anche le due opere in prestito dal John and Mable Ringling Museum of Art di Sarasota, Florida, Israelites Celebrating the Return of David e Bathsheba at Her Bath (1650), sono state presentate dalle Gallerie d’Italia come di Artemisia Gentileschi. Il museo statunitense le classificava come “laboratorio di Artemisia Gentileschi”. Porzio sostiene però che è “indiscutibile” che Gargiulo sia responsabile delle sagome sullo sfondo e del paesaggio sbozzato, mentre “c’è anche il contributo di Palumbo, ma è chiaro che è solo sotto la direzione di Artemisia”.
Bathsheba at Her Bath è anch’esso di dubbia attribuzione. Il museo di Napoli vede anche in questo caso la netta mano di Gentileschi, mentre il museo di origine preferisce non sbilanciarsi e sostiene che sia stato probabilmente dipinto da più artisti, ognuno specializzato in vari aspetti della composizione. Difatti tali progetti collaborativi, come detto, sono caratteristici dello studio di Gentileschi.
Anche per questo le attribuzioni delle Gallerie d’Italia non si intendono affatto definitive. Sono però ulteriori passi in avanti in una discussione ancora aperta, che si rinnova ogni qualvolta emergono nuovi documenti o scoperte. Che di questi tempi non mancano.