Metti di trascorrere un paio d’ore con la scoppiettante Arianna Carossa, per parlare di libertà, autogestione, “scazzi” d’artista. E della personale “Incanto”
Abbiamo passato una mezza mattinata con Arianna Carossa in occasione di “Incanto”, la sua personale dislocata in tre sedi, a cura di Anna Daneri e Vita Roberta Cantarini (fino al 18 febbraio). Mezza mattinata, girando nel centro di Genova, per (tornare a) capire una cosa: chi fa arte ha bisogno di sentirsi libero. Libero, anche di inchiodarsi mentre ci spostiamo da una sede all’altra, per fissare uno dei lastriconi che pavimentano piazza De Ferrari e dirti: «Tu non ci vedi una faccia?». «Ehm, no Arianna», risponde il sottoscritto.
Diciamo che tra i tanti scambi di battute questo, alla fine anche piuttosto estemporaneo, sarebbe potuto anche passare in secondo piano. Ad esempio, in quel paio d’ore assieme abbiamo parlato della complessità di dare titoli a certe opere; come delle limitazioni imposte dal dipingere su tessuto, presupponendo, quest’ultimo, un pre-ordine compositivo tale da tarpare le ali della spontaneità creativa. Peccato capitale secondo il Carossa-pensiero. Mentre racconta di voler mettere una croce sopra a quel tipo di supporto, chi scrive guarda un lavoro come Mountain wave, con la sua pennellata bella carica che assume una profondità compositiva davvero interessante. E pensa che sia un peccato abbandonare l’utilizzo del tessuto. Dai, per com’è vulcanica Arianna, magari alla fine ci ripensa.
Ma eravamo a guardare delle “facce” in piazza De Ferrari. È da quel momento che il sacro fuoco della libertà d’artista ha alimentato quella del confronto, altrettanto libero, tra esseri umani che producono e consumano arte contemporanea. Fattibile quando ognuno ha la potenzialità di far valere la propria percezione individuale, davanti a un pezzo di lastricato così come a un’opera d’arte. Perché a ragionare in termini assoluti di ricezione giusta o sbagliata del messaggio veicolato, si ottiene solo un mix tra appiattimento e omologazione nelle vedute, all’interno di un arte fatta di istruzioni per l’uso da consultare preventivamente. E cosa ce ne facciamo di un’arte contemporanea così? Mah, dovremmo girare la domanda a chi del settore (artista o curatore che sia) di fronte a certe riflessioni fa orecchie da mercante. Previo fingere di averle capite e fatte proprie, ovviamente.
Il Rossetti ha fatto il suo mezzo dissing e ora può tirare dritto su “Incanto”. Che parte del suo fascino lo deve proprio alla caratteristica di non proporre pezzi nati ad hoc, facendolo suonare un po’ come un complesso arrangiamento di memorabilia del percorso professionale e personale di Arianna. Diretta, tuttavia, nel dire «In “Incanto” conta il progetto». Un progetto indubbiamente espositivo, quanto eticamente cadenzato sulla messa in discussione di alcune dinamiche interne al settore arte. Con Arianna, infatti, parliamo della capacità di autogestione, che nel tempo l’ha portata a svincolarsi dall’assioma della galleria di rappresentanza. Quindi del rapporto gallerista/artista, idilliaco in alcuni casi e tossico in altri, snaturante nell’indipendenza del secondo di sviluppare progetti in linea con le proprie esigenze. Infine di come con Incanto abbia saltato la trafila canonica, occupando coi suoi lavori direttamente gli spazi di Deloitte Private e Sanpaolo Invest Private, sedi della pecunia indispensabile al mecenatismo e/o all’acquisto di arte. A queste si aggiunge Stupendo, a Space for Art Storytellers, galleria agli antipodi del white cube. Immaginate una wunderkammer – ma nel vero senso della parola – e vi sarete fatti un’idea di cosa stiamo parlando. Chiude il cerchio – e rende Incanto un progetto pienamente “meta-espositivo” – la messa “all’incanto” di tutte le opere, con un’asta fissata al 16 febbraio 2023, il cui ricavato servirà a creare una borsa per artista indipendente.
Quaranta pezzi smistati in tre sedi e un «Faccio quello che mi viene». Arianna è così, “pane al pane e vino al vino”. Mentre eravamo da Stupendo ci ha raccontato il suo passaggio, circa vent’anni fa, dalla modulazione della pittura alla modellazione della ceramica. Quando quest’ultima «Non se la filava nessuno» aggiunge. L’allestimento, più che un allestimento, è una caccia al tesoro. Trattandosi di una galleria in senso lato, l’intervento di Arianna va a completare quel magnifico caos che è la vetrina di Stupendo su vico della Casana. Un incanto dentro Incanto, che passa dalle sfumature intense di Birds on a young skull, ceramica con applicazione di delicatissimi uccellini Lenci, al Bright smile, calco di una dentatura di squalo in grès. Fino alla lavorazione in terzo fuoco di quella che pare una vagina e lo è pure, titolo Portrait of a girlfriend. Quando il dono della sintesi è arte già di suo.
Il match Carossa/Stupendo è un odissea, surreale quanto basta a far sì che quelle sculture condividano lo stesso ambiente di curiosità provenienti dal mondo animale, così come con una tecnica mista di Piergiorgio Colombara. Il consiglio è lasciarsi trasportare emotivamente, prima ancora di approcciare il tutto razionalmente.
Le sedi di Deloitte Private e Sanpaolo Invest Private presentano impianti tra loro piuttosto similari, con sculture e dipinti a contaminare stanze dagli arredi estremamente razionali. Un contesto smagliante e ingessato il giusto, in cui è ancor più facile far risaltare due incontrovertibili qualità di Arianna: da un lato di lasciarsi incantare da ciò che incrocia sul proprio cammino, dall’altra di mescolare cose per ottenerne delle altre.
Qualità che si ritrovano in lavori come Self portrait in the nature, ibrido tra il tumore di albero e una pièce in ceramica che evidenzia come la nostra sia decisamente nel suo nel modellare la materia. Pezzo ben congegnato. Così ben congegnato che vogliamo saperne di più. Ci facciamo raccontare a grandi linee la sua storia, quella di un escrescenza “vista e adorata” anni prima del suo reale utilizzo (l’opera è datata 2020). Arianna passeggiava vicino casa dei suoi, in area emiliana. In quel momento aveva con sé solo un taglierino. Sarà andata a prendere qualcosa di più appropriato? No, le è bastato quello per portarsela via. Certo, dice che c’è voluta più di un’ora, ma signori che tenacia. Aggiungetela alla lista delle qualità.
Prima di continuare c’è qualcosa da mettere in chiaro. Il sottoscritto è molto attratto da ciò che potremmo definire “non controllato/controllabile” all’interno di un processo creativo. Sicché, sempre di fronte al Self portrait, gli parte una domanda all’apparenza un pelo tendenziosa: «La colla che cola sul legno (necessaria all’applicazione della ceramica, ndr) è voluta o no? Che valore le dai?». Lì per lì, Arianna ammette il suo non darci peso, tant’è che sotto i nostri occhi “modifica” l’opera, staccando pezzi di colla secca. Infine amplia il discorso (che, va detto, da qui in poi ha tenuto banco in vari momenti del nostro tempo assieme) facendo l’esempio della comunicazione e del rumore: «L’imperfezione è come un rumore. Se quel rumore finisce per non rendere chiara la comunicazione tra A e B, allora mi da fastidio e la correggo».
Più che breve il passaggio dall’imperfezione al fattore “scazzo”. Di fronte all’assemblaggio bronzo e legno di Smile, Arianna confessa «Io parto precisa, poi dopo un po’ mi scazzo». Col sottoscritto che ribatte «Vedi, allora quella colla che cola è sintomatica del tuo scazzo». Forse l’abbiamo quasi convinta. Quasi, dai.
In due ore ce ne siamo raccontate ancora tante altre, spaziando dalla pittura immaginata come «Una pentola col sugo che ribolle», alle insidie del lavorare la porcellana. All’imprevedibilità nel processo creativo, che dice «Vorrei fosse il 90% del mio lavoro». E ci fa l’esempio: «Prendi dei fogli impilati e li metti in una stanza, lasci la finestra aperta, chiudi la porta e te ne vai. Poi rientri, e quello che è successo è successo». La salutiamo a poche ore dal suo ritorno negli Stati Uniti, dove vive da anni, e in solitaria ci rituffiamo nel caos di Piazza De Ferrari. Stavolta pensando che per incantare gli altri devi fare come Arianna: provare prima quell’incanto sulla tua pelle.