Nel denso programma di ArtCity, tra “main program” e spazi indipendenti, abbiamo selezionato sei mostre molto diverse tra loro che – finita la fiera – accompagneranno la vita culturale della città nelle prossime settimane
Uno spazio leggendario, come l’isola di Atlantide. Non è di certo sfida facile, specialmente oggi, riuscire a trasformare ambienti in realtà “immersive” senza cadere in stucchevoli espedienti o soluzioni decisamente poco estetiche, visto che l’immersione per molti versi è diventata la regola del gioco espositivo. Il MAMbo, invece, è riuscito splendidamente a trasformare la sua ciclopica Sala delle Ciminiere in un abisso, per ospitare l’Atlandide 2017-2023 di Yuri Ancarani (Ravenna, 1971), a cura di Lorenzo Balbi.
Se ancora non avete assistito all’epopea di Daniele (Daniele Barison), giovane veneziano che attraverso i suoi gesti e il suo quotidiano racconta del rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta accompagnato dal “barchino” prendetevi tempo e immergetevi nell’atmosfera rarefatta dalle isole della laguna, in un racconto che Ancarani ha raccolto in “presa diretta” negli ultimi anni, costellati non solo dalla pandemia che per un certo periodo aveva completamente spopolato la città, ma anche dalla storica ondata di acqua alta che aveva colpito Venezia nel 2019. Un viaggio onirico e profondo che graffia la superficie liquida della gioventù, e che attraversa non solo una geografia peculiare del territorio del nostro Paese ma anche la stessa società: “Il film – nato senza sceneggiatura e con i dialoghi rubati alla vita reale – ha potuto registrare in maniera reattiva questo momento di grande cambiamento di Venezia e della laguna, da un punto di vista difficile da percepire, attento allo sguardo degli adolescenti. Il desiderio di vivere così da vicino le loro vite, dentro i loro barchini, ha reso possibile tutto il resto: il film si è lentamente costruito da solo”, aveva raccontato Ancarani, che ha affidato le musiche di questo lungometraggio d’artista a Lorenzo Senni e Sick Luck. E non è finita, perché questa Atlantide è anche un po’ il preludio alla retrospettiva che il PAC di Milano offrirà alla carriera di Ancarani a partire dal prossimo 28 marzo.
Dopo Marino Marino e Michelangelo Pistoletto, lo splendido Palazzo Boncompagni (che fu residenza di Papa Gregorio XIII, e che dallo scorso aprile è diventato una Fondazione, presieduta da Paola Pizzighini Benelli) riapre le sue porte per la mostra “Impertinenze a Palazzo” di Aldo Mondino. Come vi avevamo anticipato, si tratta di quindici grandi opere – per la maggior parte provenienti dall’Archivio dell’artista, più alcune da collezioni private – installate negli ambienti quasi a essere dei place specific, e in alcuni casi le “impertinenze” sono così ben riuscite che è ad un occhio meno attento è quasi difficile distinguere la loro integrazione con lo spazio. Accade principalmente nella grande Sala del Camino, dove Mekka Mokka (il grande tappeto da preghiera islamica realizzato con oltre 100 chili di chicchi di caffè), il lampadario Jugen Stilo (realizzato nel 1993 con centinaia di benne bic blu), Scultura un corno (pezzo del 1980 in cioccolato, replicato per l’occasione e composto da una totemica torre di elefanti) insieme alla scultura Trofeo (vetro e bronzo, 1996, raffigurante un paio di gambe di donna divaricate e appese a simbolizzare criticamente un trofeo di caccia, esattamente come un paio di corna d’alce) si amalgamano perfettamente al contesto, ricordandoci come Mondino sia stato artista di allusioni, di giochi di parole e di incontri di materiali che ne hanno decretato una traiettoria internazionale tra le più originali in anni complessi. Complessi perché, – lo ricorda lo stesso artista – il concettuale e il minimalismo la facevano da padrone, nelle estetiche e di conseguenza anche nel mercato, motivo per cui dopo il soggiorno parigino iniziato alla fine degli anni ’50, Mondino tornò nella capitale francese nei primi anni ’70: “Ero stufo del clima supponente di una certa avanguardia: ne decretai la morte e ripresi in mano i pennelli”, dichiarò in una delle “interviste” di Maurizio Cattelan.
Eva Marisaldi, in “Guarda Caso” a cura di Leonardo Regano al LabOratorio degli Angeli (che festeggia in questa edizione di ArtCity il suo 10mo anniversario come luogo anche espositivo), entra ermeticamente in dialogo con la vita professionale dello spazio e le sue caratteristiche e identità. Come in una base musicale, nel basso continuo che accompagna una partitura, Eva Marisaldi mischia il proprio processo e i suoi stilemi, con i contorni, le icone e negli spazi dove il LabOratorio opera, integrando realtà e rappresentazione.
Bettina Buck, con “Finding Form” a cura da Davide Ferri, è una delle protagoniste del Main Program di ArtCity. A Palazzo De Toschi, fino al 19 febbraio, i materiali poveri che compongono le sue sculture ci fanno riflettere sulla percezione dello spazio e su una pratica che diventa esercizio di percezione dello spazio e del proprio corpo: emblematico è il video dove l’artista, ripresa in una giornata di vento nella campagna inglese, trascina con sé un blocco di gommapiuma: rifiuto, fardello, addirittura riparo o aiuto sul quale sostare durante il tragitto, l’idea della ricerca della scultura si materializza esattamente come extra-forma in dialogo con l’ambiente e con le dimensioni finite dell’essere umano.
Lucy e Jorge Orta, la celebre coppia di artisti che da trent’anni lavorano utilizzando come base per la loro poetica le tematiche ambientali e della tutela del pianeta sono invece all’Oratorio di San Filippo Neri con “Seeking Blue Gold”, a cura di Cristina Francucci e Tatiana Basso.
Nello splendido spazio del centro di Bologna tre installazioni ci ricordano allo stesso tempo la preziosità dell’oro blu, l’acqua, e le problematiche che derivano dalla sua capitalizzazione: attraverso tre macchine in apparenza “celibi” che uniscono modelli di piroghe di legno, piccole figure avvolte in coperte termiche, taniche di vetro, tubi idraulici, rubinetti, kit di sopravvivenza e altri materiali attraverso le quali serpeggia un continuo rumore liquido: che sia spreco, che sia imbottigliamento, che sia nella natura, l’attenzione corre a un’idea primordiale del bene più prezioso, salvifico e fragile, che permette la vita sul pianeta.
Dulcis in fundo una (ri)scoperta pittorica: Patrick Procktor, a cura di Tommaso Pasquali, a Palazzo Bentivoglio, che negli ultimi anni ha ospitato anche le mostre di Sissi e Jacopo Benassi, per esempio. “A view from a window”, titolo della mostra, prende origine dallo stesso titolo di un piccolo disegno nella collezione permanente del Palazzo, e riaccende una luce su questo dandy inglese (nato nel 1936 e scomparso nel 2003), a mezzo secolo dall’ultima mostra italiana, organizzata nel 1972 da Studio La Città.
Nello spazio ipogeo del Palazzo, oltre sessanta disegni, dipinti e acquarelli di questo “viaggiatore di luoghi esotici e assiduo frequentatore di Venezia”, che le cronache dell’arte riconducono vicino a David Hockney, e che dipinse non solo gli amici intellettuali, ma anche i dettagli dei continui spostamenti in Italia, Marocco, Egitto, Cina, riscoprendo la cifra stilistica di Procktor. Una mostra realizzata grazie a collaborazioni tra collezioni private italiane e inglesi e con l’aiuto di Gabriella Cardazzo della storica galleria Il Cavallino di Venezia, amica e mercante di Procktor in Italia.