Lo storico e critico d’arte interviene nel dibattito aperto da ArtsLife dopo il corsivo pubblicato da Achille Bonito Oliva su Robinson di Repubblica
Il corsivo di Achille Bonito Oliva, comparso su Robinson di Repubblica, che tante reazioni sta suscitando, almeno un merito ce l’ha di sicuro. Squarcia il velo dell’ipocrisia asserendo che, praticamente, gli artisti e quindi l'”arte inverata”, senza il sistema dell’arte, per come si è venuto configurando negli ultimi decenni, non hanno rilevanza e prospettiva. “Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico le opere in sé non avrebbero valore”, scrive ABO. Restano fuori: critici, giornalisti, curatori, speculatori, case d’asta, banche ed esperti di finanza d’assalto; ma si tratta di un dettaglio. Il messaggio è chiaro e forte e non lascia spazio ad equivoci interpretativi.
Si tratta di un’affermazione di grande rilievo che proprio colui il quale è stato, in Italia, uno dei principi di questo complesso apparato, in linea con il suo spregiudicato protagonismo, ci regala. Intendiamoci, si tratta di un protagonismo che tanto successo ha garantito a lui e tanta visibilità internazionale ha garantito ad artisti italiani il cui destino è stato letteralmente modellato da questo vulcanico intellettuale. Il punto su cui riflettere, però, non è la giustezza della sua tesi che, in linea tendenziale, è purtroppo tristemente auto-evidente. Ma capire che questo sistema è una forma particolare di quell’industria culturale che segue le leggi del mercato e del sistema capitalistico. E, in quanto tale, si disinteressa della qualità e si occupa esclusivamente del business e dell’accumulazione, fino a teorizzare che TUTTO PUÒ ESSERE ARTE.
Legittimazione qualitativa
“Se tutto è arte” – mi capitò di intitolare così un breve saggio su questi temi – tutto diventa possibile, anche le operazioni più spregiudicate e sensazionaliste, decise a tavolino da gruppi di specialisti e speculatori che, con abili stratagemmi, non solo condizionano ma “creano” il mercato, senza aver bisogno di alcuna legittimazione qualitativa. Il sistema dell’arte, cioè, per usare una felice espressione del compianto Mario Perniola, “artistizza” qualsiasi oggetto o azione, tramutandola potenzialmente in oro come un novello Re Mida. Se questa è la realtà che, negli ultimi anni, ha valorizzato, piuttosto che i trattati di Estetica, i resoconti delle cifre di aggiudicazioni delle aste internazionali più importanti, l’alternativa non può certo essere il ritorno a uno Zdanovismo rivisitato.
Resta il fatto che muoversi nella direzione della liberazione da questa morsa significa prendere atto prima di tutto della necessità di mettere in discussione quel capitalismo finanziario e cognitivo che è venuto naturalizzandosi, come fosse una realtà assiomatica e indiscutibile. NON LO È. E lo dimostra non solo la crisi dell’arte ma quella sociale, economica e ambientale che divora il l’intero pianeta. Di cui la recente strage pandemica, ormai quasi dimenticata, è stata forse solo una modesta anticipazione che, invece di preludere a un tempo di pace foriero di un attivismo ammaestrato dai milioni di morti provocati dal virus, ha inaugurato il macabro spettacolo di una guerra nel cuore dell’Europa che dischiude scenari ancora più apocalittici.
La posta in gioco
L’attivismo dimostrato da giovani artisti e intellettuali che tentano, autogestendosi, soprattutto all’estero, di aggirare il sistema dell’arte rappresenta un segnale interessante. Anche per le forme di “economia alternativa” che tenta di produrre. Ma non basta. Non può bastare. Non si possono eludere i termini del conflitto. Bisogna rileggerli casomai come ha fatto Luciano Gallino (“La lotta di classe dopo la lotta di classe”). La posta in gioco è altissima: a partire dall’arte, non meno importante della salute pubblica.