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Il Teatro del silenzio di Djamel Tatah in scena al Museo Fabre di Montpellier 

Senza titolo, 2003. Olio e cera su tela. 250X200cm (Djamel Tatah) Senza titolo, 2003. Olio e cera su tela. 250X200cm (Djamel Tatah)
Senza titolo, 2003. Olio e cera su tela. 250X200cm (Djamel Tatah)
Senza titolo, 2003. Olio e cera su tela. 250X200cm (Djamel Tatah)
Le théâtre du silence, importante monografica dell’artista franco-algerino Djamel Tatah, è il titolo dell’esposizione in mostra fino al 16 aprile 2023 al Museo Fabre di Montpellier.

La mia pittura è silenziosa. Imporre il silenzio di fronte al rumore del mondo è un po’ come adottare una posizione politica. Ci induce a prendere delle distanze e a osservare il nostro rapporto con gli altri e con la società.

 

Djamel Tatah

Introspettiva e rivoluzionaria, l’opera dell’artista parla di solitudine, di silenzio e di dolore, di vertigini, sospensioni, cadute. Tutto attraverso la rappresentazione di personaggi che sembrano usciti da un film di Antonioni, di Bergman, Bresson o dal Cafè Muller di Pina Bausch. Sono pallidi, pensierosi, quasi smaterializzati, avvolti in un’atmosfera più metafisica che reale, anonime silhouettes di uomini e donne colte in un gesto, un movimento, in posizione di attesa, fissate per sempre su un arresto di immagine o nell’astratto primo piano di una fotografia.

Con grande economia di mezzi e una struttura volutamente semplice, in genere un personaggio e un fondo abitato solo da uno spesso strato di colore, da più di 30 anni l’artista dedica la sua arte a un popolo di vinti: vinti dalla storia, dalla violenza, dalla vita, abitanti di un universo straniante, ambiguo, caratterizzato da una polivalenza semantica dalle chiavi di lettura alternative. E in un gioco di rimandi reciproci che consentono potenti meccanismi proiettivi, accentuati dalla sistemazione dei quadri volutamente ad altezza d’uomo.

Avanzano solitari oppure in gruppo su grandi polittici con i loro visi chiusi, ermetici, misteriosi. Sfondi su cui l’autore proietta i suoi hittistes, “reggitori di muri”, perdigiorno come vengono chiamati in Algeria, personaggi a grandezza naturale che ne accentuano il contrasto, immersi su sfondi astratti, colorati, bidimensionali. Le figure di Djamel Tatah appartengono a un universo fuori dal tempo, senza cronologia, senza regressione o progresso. Interlocutori, naufraghi, o solo ipotesi di presenze, fantasmi? Sono in cammino, verso dove non è dato sapere, l’artista non ci dà indizi certi che possano svelare una meta, oppure sono distesi, in un’immobilità mortale, in alcuni quadri si fanno corpo-paesaggio, vittime, forse, di un potere politico che li opprime, di guerre, naufragi?

L’impressione che ne viene è quella di un’opera intrisa di una sua personale gravitas, una forza interiore che viene da lontano, in cui sembrano intrecciarsi anche le personali vicende dell’artista con quelle di un popolo che ha conosciuto guerre ed emigrazione. Un insieme di opere abitate da un popolo umiliato, senza speranza, eppure dignitoso, con una dignità che nessuna violenza riesce a piegare mai del tutto, figure raramente colte in un gesto di trattenuta tenerezza che presupponga intimità o incontro, sole, anche quando sono in gruppo, resiste, semmai, la solidarietà di un destino comune.

L’artista ci interpella in quanto uomini di oggi con una forza che trae origine da archetipi tragicamente contemporanei, si sviluppa attorno ai temi della vita urbana, della guerra, della sospensione e della caduta e che, attraverso un processo di astrazione, volutamente ripetitiva, si fa universale. In mostra per la sezione Repetitions, Les Femmes d’Alger (1996) è un trittico che vede la stessa donna replicata 20 volte, in piedi e in posizione frontale.

La mia pittura è metafisica. Non sono un documentarista, il mio lavoro non è una pittura di storia né una cronaca del mondo”, ci tiene a precisare l’artista. Djamel Tatah è rimasto fedele ai principi formali che ha posto molto presto e custodiscono una semplice intenzione: “Ripensare continuamente il modo in cui l’umanità, incarnata da individualità qualsiasi, può affermarsi come presenza nel mondo a prescindere dalle caratteristiche di quest’ultimo” scrive invece E. de Chassey. Nella sezione Le theatre du silence in particolare, si assiste alla rappresentazione di un’umanità consunta dal dramma dell’attesa, un’opera maturata sulla conoscenza e la pratica di una plasticità classica dell’immagine che attraversa tutta la storia dell’arte a partire dai ritratti del Fayum. Cinque sezioni nella mostra di Montpellier scandiscono lo spazio aperto messo a disposizione dal Museo per circa 40 opere di vario formato, alcune monumentali, storiche e recenti.

Biografia

Nato nel 1959 a Saint-Chamond (Francia) da genitori algerini, Djamel Tatah vive e lavora a Montpellier. Dopo aver studiato all’Accademia di belle arti di Saint-Etienne, si trasferisce a Marsiglia, dove sviluppa una parte importante del suo dispositivo di creazione, lavorando alla realizzazione di grandi formati e polittici. Le sue opere sono state presentate in numerose esposizioni: al Centro d’Arte di Salamanca, Spagna, al Museo di Guangzhou in Cina, al Museo di Belle Arti di Nantes, al MAMAC di Nizza, a Villa Medici a Roma, al Castello di Chambord e alla Cité nationale de l’histoire de l’immigration di Parigi, presso la Collection Lambert ad Avignone, alla Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, all’Istituto Bernard Magrez Bordeaux, al Von der Heydt Kunsthalle di Wuppertal.

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