L’esposizione della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, intitolata “Il meglio maestro d’Italia”. Perugino nel suo tempo, raccoglie i maggiori capolavori del pittore nell’ottica di ripristinare il ruolo chiave che l’artista ha avuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento. Dal 4 marzo all’11 giugno 2023.
Una pittura armoniosa e limpida, del tutto priva di drammi. Pulita, estatica, leggera come una piuma che si fa dipinto. Questa la cifra distintiva, identitaria oltre la retorica, di Pietro di Cristoforo Vannucci detto Perugino. Finalmente libero dall’ingombro narrativo che lo identifica nel ruolo di allievo di Verrocchio e maestro di Raffaello, dunque come mero elemento di raccordo tra due generazioni di fenomeni, il pittore riconquista il suo inamovibile posto nella storia dell’arte grazie alla gigantesca mostra che la GNU gli dedica.
L’occasione, i 500 anni dalla morte, è solo un espediente per riportare a casa i grandi capolavori del pittore, dalla formazione fino allo Sposalizio della Vergine del 1504, che da lungo tempo mancano da Perugia. E soprattutto per fare chiarezza sull’importanza che l’artista ha avuto nel quattro-cinquecento. L’esposizione tralascia così gli esiti troppo maturi di un’attività particolarmente prolifica (talvolta persino seriale) per concentrarsi sugli aspetti che gli hanno concesso di poter operare, superato l’apice della propria carriera, replicando il suo stesso modello. In poche parole: prima di iniziare a ripeterlo, Perugino ha dettato il canone.
Del resto lo si legge in modo chiaro in una lettera datata 7 novembre 1500 in cui Agostino Chigi, tra i più grandi mecenati del suo tempo, definiva Perugino “il meglio maestro d’Italia”. Definizione, adottata dai curatori Marco Pierini e Veruska Picchiarelli come titolo della mostra, che ben evidenzia il ruolo centrale che Perugino ebbe a cavallo dei due secoli. Un momento in cui poteva permettersi di fare attendere mesi e mesi Isabella d’Este e Ludovico il Moro prima di accettare una loro commissione; di gestire due botteghe tra Firenze e Perugia (e forse una terza a Roma); di essere individuato dal padre di Raffaello (anch’egli pittore) come l’unico in grado di guidare il figlio – al tempo undicenne – verso la grandezza che avrebbe in seguito raggiunto.
Ma, ancora di più, il suo stile preciso e luminoso ha finito per dettare l’alfabeto pittorico utilizzato dal Piemonte alla Campania, dalla Toscana alle Marche, dalla Romagna alla Lombardia. In ognuna di queste località sono evidenti tracce profonde del suo magistero: nelle opere che lui ha lasciato o negli allievi, diretti o indiretti, che ha generato. La fondamentale impresa decorativa della Cappella Sistina, ad esempio, è alla base di un filone umbro-laziale del ‘peruginismo’, che trova interpreti sublimi in personaggi quali Antoniazzo Romano, o Antonio da Viterbo detto il Pastura. La sua evoluzione è raccontata passo per passo nella mostra, che evidenzia la sua crescita raccontandola fino alla definitiva consacrazione attraverso i capolavori della GNU e grandissimi prestiti internazionali. Circa 70 opere divise in 7 sezioni che evidenziano passaggi fondamentali del suo percorso.
A partire dal momento in cui lascia la bottega del Verrocchio, rappresentata in mostra dalla Madonna col Bambino datata 1470-72. Se il modello iconografico è quello elaborato dal maestro – la Vergine che sostiene il bambino benedicente in piedi su un affaccio marmoreo – Perugino vi aggiunge però dei dettagli (il filo di corallo al collo di Gesù, il libro, il cardellino) e ne snellisce il carico aulico prediligendo una più marcata fisicità. Variazione che si porterà dietro anche nel folgorante esordio nella sua terra d’origine: le otto tavolette con i miracoli di san Bernardino. Innovative le superfici luminose, le astrazioni geometriche, il gusto fiammingo, la rimozione definitiva del fondo oro, le quinte architettoniche, lo sfondo paesaggistico.
Stilemi che permangono nelle imprese fiorentine che fecero la sua fortuna. Come ad esempio le tre tavole già in San Giusto alle Mura, oggi nelle Gallerie degli Uffizi, o la Pala di San Domenico a Fiesole, le monumentali pale d’altare, quali il Trittico Galitzin, ora alla National Gallery di Washington, e il Polittico della Certosa di Pavia. Ma anche i vividissimi ritratti. A proposito di ritratti, lo sforzo scientifico che la mostra porta con sé ha conseguito un’importante riattribuzione.
Un ritratto proveniente dagli Uffizi, precedentemente attribuito a Raffaello e che vedeva come soggetto un generico modello virile (forse Verrocchio, forse lo stesso Perugino), è passato al vaglio delle ricerca della GNU. E il Museo ha stabilito con certezza che non solo il soggetto del dipinto è effettivamente il Perugino, ma che ne è anche l’autore. A certificare l’intuizione del direttore Marco Pierini sono le precisissime aderenze nelle misure tra questo autoritratto e quello posto sulle mura della Sala dell’Udienza del Collegio del Cambio di Perugia, situato proprio di fianco a Palazzo dei Priori, dove ha sede il Museo. Probabilmente per le due opere è stato usato il medesimo cartone preparatorio, tanto che coincidono le distanze tra pupilla e pupilla (56 millimetri) e tra fronte e colletto (183 millimetri).
E proprio l’abilità e la precisione di Perugino nella resa dei volti è alla base del suo successo. In particolare, la sua pittura minuta e senza asprezze si adatta all’elaborazione di un ideale di bellezza femminile che sarà emulatissimo. L’ovale purissimo, la pelle levigata come ceramica opaca, le acconciature leggiadre e fantasiose, la freschezza quasi adolescenziale. Tra i diversi esempi in mostra spicca quello della Madonna col Bambino tra le sante Rosa e Caterina d’Alessandria. In generale, quello di Perugino, è stato un percorso privo di scossoni e gesti rivoluzionari, ma costellati di aggiustamenti e perfezionamenti. Labor limae tecnico che ha portato il suo stile a depurare le scorie della tradizione e a pulire il campo per gli artisti (più di rottura) che gli sarebbero succeduti.
Sintesi perfetta, nonché vertice, della sua opera non può che essere lo Sposalizio della Vergine. Ora conservata a Caen, l’opera era stata dipinta per la cappella del Santo Anello di Maria nella cattedrale perugina di San Lorenzo. Per l’occasione il capolavoro dell’artista torna a casa per chiudere la mostra in grande stile. Al suo interno brillano infatti tutte le caratteristiche che hanno reso Perugino quello che abbiamo raccontato fino ad ora. L’architettura che contestualizza senza sovrastare; le linee fluide che disegnano un paesaggio perfettamente integrato; i contorni delle figure che si fanno morbidi, dolci, quasi impalpabili. I colori sono una carezza. Tutto si bagna di un’aurea apollinea, ogni increspatura si distende. La luce bianchissima sembra la stessa che, uscendo dalla GNU, Perugia riflette moltiplicata dal suo splendore.