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Viaggio nell’arte contemporanea. 70 opere della Fondazione Sandretto in mostra a Palazzo Strozzi di Firenze

©photo ElaBialkowskaOKNOstudio
La grande mostra Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye celebra i trent’anni della Collezione Sandretto Re Rebaudengo con oltre 70 opere dei più importanti artisti contemporanei italiani e internazionali. A Palazzo Strozzi di Firenze dal 4 marzo al 18 giugno 2023.

Ci sono stelle che non brillano in cielo, ma tra le sale di un museo. O, se vogliamo, nella costellazione ideale formata dalle opere che rappresentano punti di riferimento imprescindibili per orientarsi nel vasto firmamento della storia dell’arte. Tra queste vi sono una selezione di lavori (70 sui 2000 circa totali) che in più di trent’anni Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ha collezionato per mezzo della sua Fondazione di Torino. La quale, non a caso, ha proprio una stella come simbolo.

Si tratta probabilmente della più completa fra le raccolte di arte contemporanea in Italia, iniziata negli anni ’90 con la folgorazione per gli Young British Artist e che arriva fino agli esiti più recenti della creatività. Dove spicca come più giovane in mostra Giulia Cenci, fresca vincitrice del Premio Cairo. Una raccolta unica nel panorama nostrano, che trova eccezionale sede espositiva a Palazzo Strozzi di Firenze, ormai dedito a mostre contemporanee di alto profilo e dallo spirito divulgativo.

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Per l’occasione il Museo, proseguendo nella metafora, diviene la volta celeste dove si stagliano alcuni capolavori della collezione, la maggior parte dei quali solitamente preclusi alla vista del pubblico. La promessa, incastonata nel razzo che Goshka Macuga ha realizzato appositamente per la mostra, è quella di un viaggio nella galassia linguistica dell’arte contemporanea. Tra le sue bizzarrie, cripticità, slanci paradossali, visioni provocatorie, interpretazioni sagaci e aperture di senso che la creatività umana forse non ha mai saputo permettersi prima. E dietro la sua apparente leggerezza i temi sociali, politici e culturali che i nostri tempi ci hanno consegnato.

L’esplorazione prende avvio dalla Londra degli anni ’90. Qui un gruppo di giovani artisti, senza condividere né medium né contenuti creativi, condivide una scena artistica animata da nuove idee e prorompenza comunicativa. Sono gli Young British Artist, che a trent’anni di distanza non hanno perso il loro potere persuasivo, quello basato su un’arte concettuale che sfida pratiche e consuetudini. Così mentre Anish Kapoor crea sculture coloratissime, Damien Hirst idea una gabbia-ufficio che ora inaugura il percorso di mostra. Una condanna per ogni pulsione di vita, parzialmente (anche si in modo perverso) recuperata nella scultura dai seni multipli di Sarah Lucas, che riflette criticamente sulla trasformazione del  corpo femminile in oggetto di desiderio.  

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Del tutto tecnica anche la riflessione portata avanti, negli stessi anni, dagli artisti che come moderni alchimisti operano sulla materia per esaltarne le possibilità intrinseche. Dalle nuvole di schiuma mutaforma di David Medalla (Cloud Canyons) a Viral Research di Charles Ray, dove il movimento del fluido nero attraverso i tubicini in vetro richiama esperimenti chimici, così come la diffusione impercettibile, eppure letale, di organismi microscopici. Di spirito filosofico, ma anche grottesco, le sculture di Maurizio Cattelan, che nel ’94 debutta sulla scena internazionale con una mostra a Londra. In mostra alcune opere seminali dell’autore: lo scoiattolo suicida di Bidibidobidiboo (1996), l’autoritratto appeso de La rivoluzione siamo noi (2000) e la goliardica ma non banale partita a calciobalilla di Stadium (1991).

All’inizio del millennio emerge chiaramente la frammentazione che caratterizza la nostra epoca, che Cindy Sherman ha impresso nelle immagini raffiguranti molteplici versioni di sé (Untitled Film Stills), debitrici di modelli stereotipati della femminilità, in cui l’artista mette in scena la natura costruita dell’identità, il suo essere frutto di processi sociali, acquisiti e riprodotti dai mass media. Atteggiamento critico che si ancora più evidente in Barbara Kruger e nelle sue critiche politiche, arrivando fino agli esiti drammatici di Shirin Neshat. L’artista di origine iraniana dagli anni Novanta indaga il ruolo della donna nella società islamica tradizionale, dominata dalla repressione delle libertà individuali.

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Il viaggio prosegue nei paesaggi e negli spazi ritratti nelle opere di Jeff Wall, Andreas Gursky, Thomas Struth e Thomas Ruff. Si tratta di luoghi reali e immaginari, visioni costruite in senso drammatico, prima dello scatto o in postproduzione, rese epiche dalla scala e dalla qualità cromatica della stampa, che evocano la monumentalità della pittura di storia. Spazi dove è assente l’uomo, che ritorna nella sua fragile corporeità coi corpi distorti e sfigurati di Berlinde De Bruyckere. Le sue sculture in cera policroma evocano un’umanità fragile ed esausta, incapace di esistere appieno anche nell’arte. Così Lynette Yiadom-Boakye esegue ritratti di persone inesistenti, Mark Manders è costretto a disseminare il suo autoritratto in mille opere,  Andra Ursuţa deve ricorre al fantastico per riuscire a rappresentare i fatti di cronaca che spaventano al Romania.

«E se potessimo vedere e pensare noi stessi – l’umanità – da una prospettiva aliena? Distaccata, senza pregiudizi, persino amorale? E se potessimo vedere e pensare noi stessi dall’estremità del nostro percorso compiuto?» si chiede Adrián Villar Rojas raccontando la sua opera scultorea, finendo a indicare il senso che tutta la mostra si dà come presupposto. La prospettiva è quella dell’arte, altrettanto amorale ma scrupolosa quanto quella aliena, che nei quadri di Avery Singer – dove la pittura dialoga con la modellazione 3D, la  figurazione con l’astrazione, l’analogico con il digitale – pare essersi anch’essa indirizzata verso inevitabili lidi digitali. 

Non a caso la mostra si conclude nella Strozzina (la parte sotterranea del museo), dove sono esposti una serie di video dalla natura differente. Tutti però con il modello cinematografico come migliore referente. Come Douglas Gordon, la cui opera in mostra, Zidane. A 21st Century Portrait, frutto della collaborazione con Philippe Parreno, è un documentario sul celebre calciatore che  diviene riflessione sul rapporto tra sguardo filmico, regime dello spettacolo e la produzione di mitologie contemporanee. Con esso convive il linguaggio filmico di William Kentridge, l’animazione in stop-motion, che per l’artista è strumentale alla ricostruzione del passato traumatico del suo paese, il Sudafrica. Solo una delle molteplici destinazioni dove il nostro viaggio poteva concludersi. Avreste preferito un’altra fermata? Per fortuna il razzo per qualche mese rimane nel cortile di Palazzo Strozzi, a disposizione di chiunque voglia imbarcarsi.

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